Le ragioni dell’agricoltura sociale urbana
1 Febbraio 2016Paolo Erasmo
Chi per hobby, chi per necessità, chi per ragioni ecologiste, gli Italiani riscoprono la terra e i suoi prodotti. Ed è così che l’agricoltura urbana sociale sta diventando un fenomeno sempre più diffuso, al punto che le superfici dedicate “ agli orti urbani” sono triplicate in soli 3 anni, trasformando una pratica individuale in una strategia destinata a determinare insieme alle politiche relative ai trasporti e all’ambiente, la sostenibilità delle città future.
Sotto l’etichetta di agricoltura urbana possono rientrare esperienze differenti, a cominciare dagli orti urbani, spazi destinati alla coltivazione ricavati da aree del verde pubblico e assegnati dai Comuni in comodato ai cittadini, che oltre a fornire prodotti per il consumo familiare concorrono spesso a preservare le aree verdi, tra le aree edificate perlopiù incolte e lasciate nel degrado. Le modalità di assegnazione variano in base alle scelte dei singoli enti, ma il funzionamento è generalmente abbastanza semplice: il bando per l’assegnazione degli appezzamenti viene pubblicato online, si fa domanda e si ottengono i propri metri quadri di verde. La crescita del fenomeno ha indotto infatti le amministrazioni comunali a dotarsi di una regolamentazione comunale per l’assegnazione e la gestione degli orti. Ma proprio per armonizzare la legislazione in materia e creare una rete tra i Comuni italiani, nel 2008 Anci, Italia Nostra e Res Tipica hanno siglato un protocollo d’intesa – rinnovato lo scorso anno – con l’obiettivo di promuovere il “progetto nazionale orti urbani”, al quale hanno già aderito numerosi Comuni.
La coltivazione di suolo pubblico non si limita alle aree specificatamente dedicate ma, nei casi più “intensivi”, può essere estesa anche agli spazi urbani marginali, come aiuole, sponde dei fiumi, margini ferroviari, spesso per iniziativa dei cittadini, senza cioè che vi sia una concessione riconosciuta dall’ente pubblico. Accanto agli orti urbani realizzati su spazi pubblici, sono sempre più numerose le aree che i privati destinano ad “uso coltivazione” nei cortili e sui balconi delle abitazioni, dove gli ortaggi prendono il posto di rose e piante ornamentali. Infine, crescono gli orti con una funzione riabilitativa, come gli orti delle case circondariali, aree alternative per il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti; gli “orti-scuole”, aree per attività didattico-educative per i ragazzi di scuole di ogni ordine e grado; gli orti destinati all’ortoterapia, attività di giardinaggio e orticoltura a supporto di programmi riabilitativi per persone diversamente abili.
Le ragioni della diffusione dell’agricoltura urbana sono molteplici, alcune affondano le proprie radici nei cambiamenti socio-culturali avvenuti negli ultimi 15 anni, altre nei benefici più immediati che essa è in grado di generare. Ci sono innanzitutto motivazioni ambientali: riduzione della CO2, tutela della biodiversità e promozione di uno sviluppo urbano ecosostenibile, volto ad inserire più “verde” nelle aree cittadine. Ma anche una crescente attenzione alla salute e alla qualità nel cibo, grazie alla possibilità di coltivare, e quindi controllare direttamente, ciò che si mangia – l’“apoteosi” del biologico. Ed un ritrovato amore per la terra e la sua concretezza. Nulla di banale dunque, la possibilità di auto-produrre frutta e verdura o acquistarla a costi ridotti può alleggerire notevolmente il carico di spese alimentari.
Ma queste esperienze hanno anche importanti risvolti sociali. L’agricoltura urbana è un elemento che si inserisce direttamente nell’ambito dello urban design, delle funzioni del verde pubblico, dei vuoti urbani da riempire, oltre che un modo per riqualificare aree urbane degradate o abbandonate. In questo senso basta guardare ai Paesi in via di sviluppo, dove la pratica agricola comunitaria viene impiegata in progetti di sviluppo locale volti a integrare il mondo urbano e quello rurale, dando ai cittadini l’opportunità di accedere al cibo per autoconsumo, alimentarsi in modo sano a costi accessibili.
Non solo. Gli orti sociali possono divenire veri e propri spazi di aggregazione dove fare incontrare fasce sociali e generazionali differenti, oltre che uno strumento per inserire il cittadino nell’ambiente in cui vive, trasformandolo in un cittadino attivo. Lavorando concretamente su uno spazio, infatti, questo percepisce il terreno come bene comune che va salvaguardato e tutelato e grazie al contatto con la terra, si crea quel legame col territorio in grado di sprigionare nuove idee per pensare alla città e viverla. Certo, agricoltori non ci si improvvisa, per questo nascono corsi di formazione sulle tecniche di coltivazione. Le Associazioni ,fanno da collante tra la coltivazione diffusa, per riscoprirne le funzioni sociali, culturali e produttive. Il programma è semplice e accompagna le lezioni teoriche con sperimentazioni pratiche.
Fatte queste premesse, è evidente come il cibo sia strettamente funzionale alla vita della città. In realtà lo è sempre stato: non a caso in passato per conquistare una città la si isolava, affamandola. L’agricoltura urbana, pur se a intermittenza, è stata vitale in periodi di crisi economica e sociale, dopo i disastri ambientali o durante i conflitti. Dopotutto è impossibile immaginare città del futuro senza immaginare le strategie e i canali che utilizzeranno per nutrirsi. Per questo motivo è più che mai urgente che gli amministratori delle città riconoscano l’importanza del tema e lo collochino al centro del dibattito politico.
Ancora non esiste una mappatura precisa che ci consenta di quantificare il fenomeno, ma le cifre disponibili ne confermano una rapidissima espansione, iniziata negli anni ’70 ed accelerata soprattutto negli ultimi 15 anni. Un’analisi della Coldiretti su dati Istat rileva che nel Nostro Paese gli orti urbani nel 2013 sono triplicati rispetto al 2011, salendo da 1,1 a 3,3 milioni di metri quadrati di terreni di proprietà dei Comuni. Il tutto con un’alta variabilità territoriale: se a livello nazionale circa il 50% delle amministrazioni comunali capoluoghi di provincia nel 2013 ha messo a disposizione orti urbani per la cittadinanza, esiste una forte polarizzazione regionale con la percentuale che sale all’81% nelle città del Nord (oltre che a Torino, superfici consistenti sono dedicate anche a Bologna e Parma, entrambe intorno ai 155.000 metri quadrati), mentre meno di due città capoluogo su tre al Centro Italia hanno orti urbani e nel Mezzogiorno sono presenti solo a Napoli, Andria, Barletta, Palermo . Secondo Istat, sarebbero invece 21 milioni gli Italiani che stabilmente o occasionalmente coltivano l’orto e curano il giardino.
Oggi In Sardegna ci sono già delle realtà che si stanno affermando nel percorso degli “orti Urbani” realtà importanti ci sono nelle città di Oristano e di Olbia oltre che Nuoro ; in quanto hanno saputo cogliere l’opportunità di in bando regionale del 2012 , che finanziava con 50.000 euro ogni singolo progetto ; opportunità che la Capitale della Sardegna Cagliari, non ha potuto ho voluto cogliere .Mentre nell’aria vasta di Cagliari i Comuni di Selargius Monserrato sono già in una fase avanzata e a breve partiranno con i Bandi per le assegnazioni degli orti. Naturalmente rispetto alla richiesta crescente da parte dei cittadini di avere dei lotti coltivabili gli spazi disponibili non sono sufficienti ; nella Città di Cagliari al momento ci sono solamente delle iniziative di alcuni cittadini organizzati in Associazione che sperimentano in spazi privati il percorso degli “orti urbani “ in attesa che il Comune di Cagliari possa dotarsi di un regolamento e di uno spazio per realizzare gli “orti urbani “ almeno come progetto pilota.
Nella città di Cagliari e nella sua area vasta gli spazi per realizzare “orti Urbani” non mancano basta pensare alle ex Servitù Miliari di Monte Urpinu e Cala Mosca, oltre agli ampi spazi del parco di Molentargius dove tra l’altro si potrebbe utilizzare l’acqua riciclata del depuratore di “is Arenas “ infatti esiste un progetto già finanziato del Comune di Cagliari per il riutilizzo delle acque depurate; ma il comune di Cagliari ha deciso di utilizzarne solo una piccola parte di quell’acqua, in quanto il progetto ha previsto solamente la possibilità di innaffiare esclusivamente i parchi cittadini, preferendo continuare a”buttare “ al mare il resto.
Considerando che nel parco di Molentargius si affacciano oltre la città di Cagliari anche Quartu Sant’Elena Selargius Monserrato e Quartucciu si potrebbe realizzare il “ Borgo Agricolo “ dove iniziare un percorso di agricoltura naturale e sostenibile che oltre agli orti urbani preveda anche l’agricoltura quale strumento di inclusione sociale e inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati; compresi i “migranti “ che circolano per le vie della città e all’ingresso delle attività commerciali oppure nei parcheggi dei mercati cittadini . Considerato che la Sardegna importa circa 80% de prodotti alimentari che si consumano sarebbe un passo importante per la riconversione di territori abbandonati oltre che un importante inserimento lavorativo per tanti cittadini espulsi dal mercato del lavoro. Inoltre consentirebbe un’alimentazione sana con cibi controllati che porti al consumo consapevole del prodotto, dal luogo di produzione a quello di consumazione il “cosiddetto “ prodotto a KM Zero non come annunciato in tanti slogan, ma come fatto effettivo.
Paolo Erasmo è socio fondatore dell’associazione Agriculture
27 Ottobre 2016 alle 15:39
[…] per cui la Sardegna, che se da un lato esporta energia, dall’altro è costretta a importare l’80 per cento dei prodotti agricoli di cui […]