Le torture a San Sebastiano

1 Maggio 2010

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Sante Maurizi

Fu il giorno peggiore per l’amministrazione penitenziaria italiana. Il 3 maggio di dieci anni fa finivano in cella il provveditore regionale degli istituti di pena sardi, la direttrice e il comandante degli agenti del carcere di Sassari e 18 tra ispettori e sovrintendenti; agli arresti domiciliari 59 guardie. Ottanta ordini di custodia cautelare per violenza privata, lesioni, abuso d’ufficio e violazione dell’ordinamento carcerario con tutte le aggravanti per aver agito con crudeltà su persone inermi. Con una operazione clamorosa la magistratura sassarese terminava le indagini sul pestaggio e lo sfollamento di decine di detenuti avvenuto un mese prima: i fatti di Sassari, come li aveva subito definiti la stampa nazionale.
Da tempo montavano a livelli sempre più critici gli incidenti e le tensioni a San Sebastiano, un classico panopticon di centoquaranta anni fa, una montagna di tufo sbrecciato al centro della città (chi nel 1939 decise di addossargli il tribunale aveva le idee chiare: come dire, qui non avrai giustizia, solo una scorciatoia per la galera). Diversi episodi di violenza e autolesionismo erano diventati immediatamente di dominio pubblico: le celle di due bracci si affacciano su via Cavour, non è difficile incontrare per strada donne che chiacchierano con propri congiunti dietro le sbarre, e capita spesso che questi ultimi richiamino l’attenzione di chi abita nei palazzi di fronte. Così era accaduto una notte d’ottobre durante un presunto pestaggio e un principio d’incendio, con i detenuti che invocavano urlando l’intervento dei carabinieri. Ricorrenti le agitazioni e i sit-in organizzati dai sindacati della polizia penitenziaria, con denunce ripetute del degrado delle strutture del carcere, negazione di qualunque criterio igienico-sanitario e dei principi ispiratori del ‘trattamento’ dei detenuti.
Cinque commissari del comitato parlamentare per i problemi nei penitenziari – fra loro Alberto Simeone, padre della legge sulle misure alternative alla detenzione – visitano il carcere il 17 marzo. Ne verificano di persona le condizioni terrificanti (‘turche’, diranno: i sotterranei dove sono situate le docce ne diventano il simbolo) e chiedono ai detenuti informazioni su alcuni episodi precedenti, ricevendone versioni differenti da quelle ufficiali. La notte fra il 27 e il 28 marzo scoppia il caos. Da due giorni è in corso uno sciopero nazionale dei direttori delle carceri; lo spaccio è chiuso e tutto ciò che comporta l’autorizzazione della direzione (spese extra, sigarette, ricevere pacchi, fare telefonate) è sospeso. Dalle celle urla, sbatacchiamento tra le sbarre di posate e gavette, lancio di oggetti infuocati dalle finestre. Solo all’alba pare tornare la calma. Due giorni dopo viene sostituito il comandante delle guardie, ritenuto troppo ‘morbido’.
Il 6 aprile giunge agli organi di stampa e alla procura della Repubblica un foglietto. È un gruppo di donne a scrivere in un italiano stentato di propri congiunti trasferiti improvvisamente da Sassari alle carceri di Macomer e Oristano. Pesti, sanguinanti, qualcuno coperto a mala pena da buste di plastica lorde di escrementi. Saranno le stesse donne che qualche giorno dopo animeranno una via crucis fin sotto le mura del carcere, circondate da una città distratta se non ostile (il quotidiano locale, «La Nuova Sardegna», sarebbe stato però protagonista in positivo e costante della vicenda). Le stesse che firmeranno una lettera a Oliviero Diliberto (titolare della Giustizia con D’Alema – tre settimane dopo gli succederà Piero Fassino nel nuovo governo Amato): «Signor Ministro, fermi, in nome di Dio, la violenza nel carcere di San Sebastiano. Siamo stati informati che oltre cinquanta detenuti sono stati massacrati da poliziotti; almeno venti di loro versano in gravissime condizioni. La preghiamo di prendere subito tutte le misure necessarie per salvare la vita ai detenuti». Magistratura e ministero si muovono con celerità. La conferma della notitia criminis arriva sin dal primo interrogatorio svoltosi nel carcere di Oristano: le raccapriccianti tumefazioni sul volto del recluso chiamato a incontrare gli inquirenti non danno adito a dubbi. Ma che cosa era accaduto nei meandri di San Sebastiano?
Nel pomeriggio del 3 aprile decine di agenti in tuta mimetica, anfibi e manganello, provenienti da diverse carceri sarde, si distribuiscono lungo i bracci del carcere, aprono le celle ed entrano come furie. Urlano «dove sono i boss di Sassari? siete voi i boss?», rovesciano armadietti e brande, spargono le provviste per terra e le inondano d’acqua, fanno a pezzi le foto appese ai muri, gettano indumenti dalle finestre giù nel cortile. Ammanettano i detenuti, li trascinano fuori tirandoli per i capelli o per i polsi e li conducono alla rotonda centrale malmenandoli, colpendoli con calci, schiaffi e manganellate. Il neo comandante (tutte le testimonianze concorderanno nell’indicarlo come «l’uomo dallo spolverino bianco») li accoglie infilando guanti di lattice e ordinando che stiano faccia al muro, urlando «Sono il vostro dio. Il lager è un paradiso al confronto di questo posto». Ad alcuni fanno tenere una mela appoggiata tra la fronte e il muro, e giocano a fargliela cadere: ogni volta che la mela casca sono botte. Vengono fatti spogliare e per piccoli gruppi fatti passare per il corridoio che unisce la rotonda alla sala colloqui, tra due file di agenti che li percuotono al passaggio. Nel parlatorio alcuni vengono inondati con acqua gelata ed esposti all’aria che penetra dalla finestra aperta, a un altro che sanguina abbondantemente dal naso e dalla bocca viene immerso il viso nell’acqua di un secchio, tenendogli un piede sulla nuca fin quasi a soffocarlo. Un altro subisce la ‘risonanza magnetica’: gli viene infilato in testa un altro secchio che viene poi colpito selvaggiamente con manganelli e con la gamba di un tavolo della sala colloqui fatto a pezzi.
Per il film dell’orrore può bastare. L’ultima puntata del film seguente, quello dei processi e dei vari gradi di giudizio, si è svolta nel settembre scorso con il proscioglimento di sette agenti per i quali «il tempo trascorso dai fatti ha inevitabilmente fatto maturare i termini massimi di prescrizione». La sentenza precisa che «la legalità cedette il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di mostrare la propria durezza al nuovo comandante». Precedentemente, nel giugno 2007, erano stati condannati definitivamente con rito abbreviato il provveditore regionale (sedici mesi), la direttrice (dieci mesi e venti giorni) e il comandante delle guardie (venti mesi). Tutti gli altri imputati sono stati assolti o prosciolti. I giudici scrissero di essere consapevoli del fatto che assoluzioni avrebbero potuto «mandare esenti da pena molti responsabili», ma avvertirono che «non è ammissibile, a nessun patto, il rischio di far pagare a diversi imputati azioni da essi non realizzate e non condivise».
C’è poi un altro film, la cui sceneggiatura è tutta da scrivere (la maggioranza di governo pare avere bene in mente il plot). Anche nelle sentenze venne rimarcata «l’esasperazione indotta dalle difficoltà particolari di un lavoro svolto in una struttura inadeguata». La ricetta della costruzione di «più moderni e sicuri» penitenziari sappiamo essere uno dei tasselli importanti delle attuali politiche securitarie (il ‘piano carceri’ come il ‘piano casa’ medicamenta del taumaturgo e palazzinaro a capo del governo). A Sassari, fuori dall’abitato, è in corso la costruzione del nuovo carcere. Cinquantotto milioni di euro, appaltante l’Anemone Costruzioni (impegnata anche nell’erigenda nuova caserma della Guardia di Finanza). C’è una battuta che circola fra gli agenti penitenziari: «Come gli spazzini e i becchini, noi togliamo la merda che gli altri non vogliono vedere». In periferia la merda si vede ancor meno. Ne sarebbe contento l’agente che dopo gli incidenti del 27 marzo dichiarò: «Una normale protesta che sarebbe passata inosservata se il carcere fosse stato da un’altra parte e non al centro della città».
E c’è, infine, ricorrente, il tema dell’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano (ben altro rispetto all’«abuso di autorità» dichiarato nelle sentenze sassaresi e in mille altri casi: poco più di un anno dopo i fatti di Sassari sarebbero parsi a molti la prova generale degli orrori di Bolzaneto). Come ha scritto sul Manifesto Lino Buscemi all’indomani dei casi Cucchi e Blefari, «c’è bisogno dell’impegno meno reticente del governo e dei maggiori leaders di tutti gli schieramenti, sia per superare le residue resistenze che per rimettere all’ordine del giorno dei lavori del parlamento un punto di grande rilievo giuridico, politico, morale e civile». Ma non dovrebbe essere anche quello della tortura uno dei «grandi temi sui quali è possibile mobilitare le persone modificando l’agenda politica con iniziative mirate e fondate sull’azione collettiva», come giustamente si rallegrava Stefano Rodotà nei giorni scorsi sempre sul Manifesto a proposito dell’avvio della campagna per l’acqua pubblica?

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