L’estinzione della democrazia*
16 Marzo 2012Gianni Ferarra
Il «fiscal compact» europeo e il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione cancelleranno i diritti. I diritti, infatti, costano. E se lo stato non potrà più indebitarsi, lo scandalo della ricchezza dei singoli contro la povertà del pubblico sarà sancito per sempre. Monti ha già firmato, Hollande resiste. La Francia, per ora, è l’unica speranza per l’Europa Questo inverno sarà ricordato. Dai costituzionalisti, dagli economisti, dai filosofi della politica, dagli storici. Lo sarà perché sta segnando il compimento della controrivoluzione iniziata in Occidente negli anni 70-80 dello scorso secolo a mezzo del neoliberismo, usato come reazione all’instaurazione dello stato sociale condannandolo all’estinzione. Lo ha già ridotto ad una larva. Sarà abbattuto. L’arma che lo finirà è stata forgiata: è il fiscal compact sottoscritto da 25 (su 27) capi di stato e di governo dell’Unione europea il 2 marzo scorso. Ha per fine l’espropriazione senza indennizzo, senza corrispettivo, pura e semplice, netta, della sovranità finanziaria degli stati. Il che equivale a sancire la sottrazione dello strumento cardine della politica di distribuzione della ricchezza prodotta all’interno degli stati alla democrazia negli stati. A perpetrare questa espropriazione si provvede con un trattato internazionale, l’ultimo temporalmente e il più efficace dell’armamentario diretto alla neutralizzazione della politica e alla devoluzione della sovranità ai mercati, cioè agli agenti nei mercati, diretti o per procura che siano. L’inedita gravità della fase che stiamo attraversando è dimostrata da due dati non contestabili. Uno richiama i caratteri e le implicazioni dello stato sociale, l’altro attiene a come si configura attualmente il rapporto tra stati e capitali. Primo dato. Si sa che lo stato sociale ha esteso le specie e quindi il numero dei diritti delle donne e degli uomini, integrandone il catalogo con quelli sociali. Quel che non si sa, o, meglio, si nasconde, è che i diritti costano: tutti, nessuno escluso. Costano per la loro tutela, il loro esercizio, la loro effettività. Ma il loro contenuto, cioè i beni che li soddisfano, li differenziano quanto a strumenti che ne assicurano il godimento. Sono due questi strumenti: gli apparati pubblici e il mercato. Il costo degli apparati pubblici grava, com’è ovvio, sulla capacità contributiva dei cittadini, quello dei beni offerti dal mercato dal rapporto tra domanda ed offerta. Gli uni si fondano quindi sul contributo pubblico, gli altri sulla disponibilità di danaro dei singoli. I diritti alla sicurezza interna ed esterna, alla tutela della proprietà privata, allo scambio di merci, alla neutralità di chi giudica le controversie, alla libertà di movimento di persone, merci e servizi, trovano negli apparati pubblici i mezzi che coloro che hanno maggiore capacità contributiva ritengono convenienti ad assicurarli. Se ne servono e il costo di tali apparati non è messo in discussione. Il mercato, invece, seleziona i cittadini che hanno alta e anche rilevante capacità contributiva e li privilegia. Privilegia coloro che possono acquisire sul mercato, ad un prezzo corrispondente ai loro bisogni specifici, i beni e i servizi corrispondenti ai diritti sociali reclamati dalle fasce dei cittadini con capacità contributiva bassa o nulla. Privilegia quindi coloro su cui grava il costo degli apparati pubblici necessari a fornire le prestazioni che soddisfano i diritti sociali, apparati che possono essere finanziati soltanto con la riduzione dei profitti e della rendite. Siamo di fronte ad un profilo della lotta di classe che si dispiega direttamente nel giuridico. Ad essere investiti sono diritti sanciti come fondamentali in una democrazia. Se li si separa comprimendo, declassando quelli sociali, si trasforma la democrazia in un diverso regime. Un regime, magari liberale, ma a dominanza di classe, quella detentrice di capitali. Secondo dato. A leggere le stime del Fmi, l’ammontare dei prestiti che i vari governi del mondo dovranno ottenere dai mercati quest’anno supererà gli undicimila miliardi di dollari. L’entità della cifra atterrisce ma ancora più deve scandalizzare quel che sottende. Rivela la enormità della differenza tra le risorse finanziarie disponibili dagli stati e quelle in mano ai privati. È quindi un baratro quello che separa la ricchezza che soddisfa gli interessi individuali da quella destinata alla tutela degli interessi collettivi, pubblici, comuni (pur scontando la tara della corruzione e delle spese militari degli stati). È questo l’effetto prodotto dalla controrivoluzione scatenata dal capitale mediante il neoliberismo. Quel neoliberismo che, in Europa, ha sancito, nei Trattati dell’Ue, al di là di tante inebrianti ma vuote declamazioni, l’assolutismo del mercato. Ha poi avvolto le Costituzioni dello stato sociale, e tra esse la nostra, sotto la cappa della integrazione europeista. Alla crisi vasta e profonda che ha prodotto tale disastrosa ideologia, i suoi sostenitori, capi di stato e di governo, Commissione e Bce, rispondono non respingendola ma soffocando stato sociale e Costituzioni e, con lo stato sociale, soffocano la democrazia tout court. Lo prova il fiscal compact che riconferma ed irrigidisce l’ideologia liberista. Mira, non solo, come rilevato all’inizio, a neutralizzare le istituzioni rappresentative europee e nazionali con la sottrazione della potestà finanziaria e di bilancio ma spoliticizza le decisioni che vi ineriscono per immunizzarle da ogni responsabilità. Propone imperiosamente il pareggio del bilanci statali da sancire con norme costituzionali, con il che, in ultima analisi, chiunque potrà continuare ad indebitarsi per perseguire nel futuro il suo interesse privato. Ma per perseguire l’interesse pubblico no, non lo deve lo stato, non lo potrà nessuno. Prescrive il rientro iugulatorio nei parametri di Maastricht. Affida il controllo sui bilanci degli stati alla Commissione e alla Corte di giustizia, organi irresponsabili politicamente, quindi del tutto. Qualche mese fa, apparvero su questo giornale due articoli, molto bene argomentati, secondo i quali la crisi di governo determinata dalla dimissioni di Berlusconi era stata risolta in modo difforme dai canoni del governo parlamentare. Non condivisi quell’opinione. A qualificare la forma parlamentare di governo è il rapporto di fiducia e, sempre che i poteri del Capo dello Stato siano volti a tal fine, il loro esercizio è ineccepibile. L’essenza di tale forma, infatti, non è «l’elezione del governo» che ne è invece la negazione, ma la conformazione del governo a strumento degli eletti in Parlamento. Era altra la crisi. Stava mutando la forma di stato, si stava estinguendo la democrazia. Il clima è questo. Lo rivela la condotta del Governo insediatosi a crisi risolta. Lo dimostra l’altero sussiego con cui si consiglia il precariato come antidodo alla noia, si rimprovera alla Repubblica eccessiva generosità per aver assicurato a tutti previdenza sociale e assistenza sanitaria, si preannunzia una riforma fiscale basata su imposte indirette, in barba all’articolo 53 della Costituzione, Carta mai citata, per la verità, dal presidente del consiglio, in cento giorni, neanche una volta. C’è qualche speranza per la democrazia e per le costituzioni dello stato sociale? Seppur flebile ed incerta, a darcela è forse la Francia, ancora una volta, se eleggerà Hollande a suo Presidente, respingendo il fiscal compact e assicurando così la democrazia alla Nazione francese e alle altre Nazioni d’ Europa.
*il manifesto 09 03 2012