L’Europa finisce a Lesvos

1 Novembre 2020

[Filippo Kalomenìdis]

Filippo Kalomenìdis, scrittore e sceneggiatore sardo-greco, si è recato a Lesvos in Grecia per documentarsi sull’incendio del campo profughi di Moria e sul nuovo centro di Keratepe per il suo libro La Direzione è storta. Un reportage lirico sulla pandemia e i virus del potere (uscita a marzo 2021) che racconta anche la sua esperienza di volontario nei centri di isolamento per malati di Covid-19 a Bologna. Durante il viaggio è nata l’idea di pubblicare sul Manifesto Sardo un’inchiesta che rendesse chiara la realtà spaventosa dei più sovraffollati campi di segregazione di rifugiati asiatici e africani in Europa, di cui questo articolo è la prima parte.

Se non si comprende la realtà di Lesvos è impossibile comprendere la nuova politica dell’UE sui rifugiati al tempo della pandemia e dell’affermazione delle destre tecnocratiche e xenofobe.

Campo Kera Tepe

Ciò che avviene nell’isola di Lesvos e nel campo di Kera Tepe e avveniva, prima dell’incendio che lo ha devastato, a Moria è la chiave per capire gli sgomberi a Lampedusa, l’odissea della Alan Kurdi, oppure, per restare in Sardegna, la nefandezza del Centro di Permanenza e Rimpatrio di Macomer. È la chiave per capire i tanti punti oscuri, pericolosi del nuovo decreto sull’immigrazione del governo Conte. Ed è una chiave di lettura semplicissima: Kera Tepe è un inumano, scientemente disorganizzato campo di concentramento che rinchiude e tormenta esseri umani di cui l’UE intende liberarsi, utilizzando il governo di Mitsotakis e i suoi scherani dell’ultradestra come cani da guardia.

Il campo di Kera Tepe è un Lager sotto gli occhi del mondo intero, un modello atroce che si sta replicando e verrà replicato ovunque in un continente che sembra mantenere la vecchia attitudine a perseguitare i senza luogo e cancellarne ogni diritto.

Nell’antichità, i soldati che avevano appena vinto una guerra predatoria e che si apprestavano ad affrontare il mare grosso e le tempeste, disponevano sul ponte della nave il vasellame corroso, le donne, gli uomini e i bambini catturati che risultavano difettosi, insani come schiavi da sfruttare sul proprio territorio, oggetti che nel momento della razzia erano parsi preziosi per poi rivelarsi solo di ingombro. La parte di scarto del bottino di guerra. Infine gettavano tutto, cose e persone, tra le onde perché se le mangiassero per sempre.

Così, oggi, l’UE e il governo greco hanno battezzato migliaia di rifugiati imprigionati a Lesvos, secondo alcune stime 25000, come parte di scarto di un bottino di guerra.

Quelle del 2019 e del 2020, anno della catastrofe pandemica, sono state un’ondata migratoria di schiavi che non servono più al nostro sistema, e che vanno dunque progressivamente ricacciati nei luoghi di origine. Sono tutti figli delle guerre e delle carestie che l’Europa ha direttamente o indirettamente contribuito a scatenare: afgani, iracheni, siriani, somali, etiopi, eritrei, centroafricani. Quelli buoni per la frusta e le catene, come si diceva un tempo, sono già stati immessi nel mercato dello sfruttamento. Nell’era del Covid 19 bastano e avanzano.

Mitilene ti stringe tra il suo mare e la sua tramontana pulita sin dall’aeroporto. Più cammini, più ti inoltri per le sue strade che sanno di Oriente povero, saggio, dignitoso, più ne conosci la bellezza, e più ti domandi come sia possibile che qui, dove dominano i murales attualizzati di Saffo e Alceo, cantori di libertà pura, si sia arrivati a questa nuova versione della Endlösung der Judenfrage, di una soluzione finale dell’accoglienza, dell’incontro e della mescolanza tra i popoli.

Moria è stata il simbolo europeo della reclusione di decine di migliaia di rifugiati costretti a vivere disumanamente per anni nella speranza, quasi sempre delusa, di poter avere la carta blu che garantisse loro la libertà.

Le condizioni tragiche dei profughi nascono da una precisa volontà politica”, dice Apostolos Veizis, direttore del reparto Supporto Operativo di Medici senza Frontiere. A Moria prima, e più che mai a Kera Tepe ora “non sono rispettati gli standard minimi di sopravvivenza presenti in un campo di emergenza in una zona di guerra”, aggiunge. E qui si parla di un luogo dove la detenzione può durare ancora anni.

Il 70% dei prigionieri di Moria presenta sindromi psichiche, il 40% disturbi respiratori, le donne e i minori non accompagnati sono spesso vittime di violenze sessuali e tutti, senza esclusione, subiscono i soprusi delle forze dell’ordine. I rifugiati possono uscire dal campo solo con permesso specifico, altrimenti passibili di espulsione, e quindi costretti in un perenne lockdown. Dal 2019 sono stati al centro di assalti di gruppi neonazisti. Fino al 24 agosto 2020, quando i patrioti hanno scatenato una sassaiola contro donne e bambini in fila per ricevere cure mediche sotto gli occhi della polizia, e tentato di dar fuoco al campo. Guarda caso poco più di due settimane prima dell’incendio che lo ha distrutto. Rogo poi attribuito a cinque rifugiati afgani, per lo più minori non accompagnati, ora in stato di arresto.

Ma pur nel suo sovraffollamento, pur nella sua assenza di servizi elementari, Moria godeva della presenza delle ONG che rimediavano all’unico pasto al giorno fornito dalle istituzioni greche, portavano assistenza sotto ogni aspetto, e il centro godeva anche di uno spazio più ampio. “Era un inferno con qualche boccata di ossigeno”, mi dice Mousain, rifugiato iracheno che collabora con Hope Project Greece, ONG fondata da Eric e Philippa Kempson, inglesi trapiantati a Lesvos da oltre vent’anni.

Se ci si chiedesse se oggi esista qualcosa di peggio di Moria, la risposta è Kera Tepe, la collina nera. Sferzato dalla tramontana e con l’alta marea come pericolo costante, a Kera Tepe la pioggia crea fiumi di fango che invadono ogni cosa; con sessanta servizi igienici per migliaia di persone; pochi rubinetti di acqua gelida per lavarsi all’aperto; nella sua Green Area i malati di Covid 19 stanno accampati sotto il sole rovente di giorno e nel gelo la notte. Gli spazi sono ristretti, le tende incollate l’una all’altra senza corridoi di fuga, i fossati sono circondati da filo spinato, le strade di terra costantemente battute dall’ossessivo controllo delle forze dell’ordine. Kera Tepe è un inferno senza neanche una boccata di ossigeno. Il ritorno dei Lager in Europa.

Allora con l’aiuto della parte cosmopolita e aperta della comunità di Mitilene e dei militanti di “Siniparx i”, associazione greca in cui le persone a proprie spese fanno di tutto per aiutare i profughi e combattere la barbarie, ripercorro i passi che hanno portato a questo fosso senza speranza, in cui le bestie umane inutili sono state gettate dai poteri internazionali e locali.

Nel 2015, ancora ai tempi di Syriza e del governo Tsipras, all’indomani dei primi immensi sbarchi le ONG straniere venivano accolte a Lesvos e davano un contributo decisivo nell’accoglienza, da un punto di vista pratico e culturale e la società civile di Mitilene era altrettanto presente.

Fino all’estate del 2019 a Lesvos lavoravano 200 ONG di ogni nazionalità, attive in tutte le aree di accoglienza: dal recupero delle imbarcazioni, alla salute dei rifugiati, dall’assistenza legale alla fornitura di cibo, dall’istruzione alla lavanderia, sino alle installazioni elettriche e alle telecomunicazioni. Dal momento che si trovavano ad operare in una delle zone più povere d’Europa, le ONG non trascuravano nemmeno il sostegno ai greci cancellati dalla brutalità finanziaria dell’UE. La Comunità di Sant’Egidio forniva un servizio di assistenza ai senzatetto e agli abitanti poveri dell’isola al quale partecipano gli stessi migranti, creando così un raro ed emblematico meccanismo di mutuo aiuto. Inoltre Medici Senza Frontiere dispiegava assistenza sanitaria e sostegno fuori e dentro l’ospedale di Mitilene.

Fino al settembre del 2019, quando diviene premier Kryakos Mitsotakis, appartenente a una delle dinastie politiche di destra che tramandano la poltrona presidenziale da padre in figlio, e uomo di fiducia della Chase Bank e dell’Alpha Bank, strumento del potere finanziario europeo. La destra tecnocratica greca incoraggia le feroci campagne xenofobe dei neofascisti e rende le ONG obiettivi da colpire legalmente, attraverso nuove leggi che consentono di restare sul territorio solo a quelle riconosciute dal governo, e illegalmente attraverso i militanti dell’ultradestra che si scatenano in schedature di volontari, in minacce fisiche, attentati alle auto dei cooperanti e imposizione violenta ai rental cars di non fornire macchine agli operatori umanitari.

Lo scoppio della pandemia rende ancora più spietata la campagna governativa di sabotaggio delle ONG. Si arriva alla kafkiana comminazione di multe per violazione delle norme anti-covid motivate dalla fornitura dei pasti ai prigionieri, e al collaborazionismo dei neonazisti nella cattura dei migranti appena sbarcati. La saldatura tra destra in doppiopetto, destra xenofoba e forze dell’ordine, storicamente colluse col neofascismo è ormai inossidabile. E il risultato viene raggiunto: la quasi totalità delle 200 ONG non possono più operare a Lesvos. I prigionieri devono rimanere soli e nessuno deve rendere più sostenibili le loro condizioni di vita o testimoniarle. Persino a me, solo per il mio curiosare da privato cittadino a Mitilene e nei campi, è capitato di ricevere la visita di un gruppetto di sedicenti patrioti, che pretendevano di espormi il loro punto di vista su quella che qualificano come invasione.

Nessuna comunità quando sceglie di essere disumana lo è solo verso una categoria, lo diviene verso chiunque. Il governo greco ha speso solo il 30% dei fondi inviati dall’UE per l’emergenza migratoria, così come gli altri Paesi coinvolti nella crisi. Perché?”, dice Dimitris Christopoulos, professore di Scienze Politiche all’Università Panteion di Atene, e dal 2008 al 2015 membro della Commissione Greca Nazionale per i Diritti Umani. “Stanno abituando i greci a fare i cani da guardia perché per fare i cani da guardia i soldi dall’UE arrivano, per tutto il resto che occorre alla società ellenica non si sa”.

Perché peggiori saranno le condizioni in cui vivono i prigionieri dei Lager nelle isole del Mediterraneo più facile sarà respingerli fuori dai confini europei, dopo aver subito anni di atrocità, di carte blu negate, di insignificanti o significative infrazioni, pretesti per l’espulsione, di misere offerte di denaro per convincerli a tornare nei Paesi di origine che i nostri bombardamenti hanno già distrutto.

Come è successo ad Anis, in Afghanistan. Rifugiata da quando è nata diciassette anni fa, mi insegna in perfetto inglese che ogni principio base della matematica ha una soluzione. E sapere questo le ha dato la forza di guidare i suoi genitori e i suoi fratelli, quasi fosse la profetessa di un mondo dove le strade non si interrompono mai, e attraversare la terra dei laghi salati al confine con l’Iran, e anni dopo di salire e risalire i monti Zagros fino alla Turchia e arrivare fino a qui, dove è prigioniera da due inverni.

Come è successo a Elias, congolese di venticinque anni di cui tre vissuti da recluso tra il filo spinato, che mi parla dal basso del fossato giallo. Mi mostra le sue scarpe vecchie quasi quanto la sua detenzione e mi dice che i fari accesi la notte non gli fanno nemmeno vedere le stelle. Come è successo a Huda, siriana, che mi permette di guardare come consola la figlia Thanaa, uno dei doni più grandi che una madre possa fare a un estraneo, mentre vivono l’unico pezzetto di mare accessibile nel campo, in cui da sempre vivono sole.

È ancora possibile creare un’Europa senza Lager? I Lager non sono solo un concetto ma anche un processo culturale che si può contribuire a creare o a dismettere. È il momento di chiedersi che ruolo possano avere gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti europei, italiani, e sardi per impedire questa barbarie. Si può ancora credere all’Europa come luogo di incontro e mescolanza di popoli e civiltà?

Non è sufficiente condannare ideologicamente la barbarie per non potersi dire complici. A me non basta il mio lungo viaggio, il mio reportage e il mio libro per dare voce ai cancellati, ai senza luogo di Moria e Kera Tepe.

L’umanità ha bisogno di gesti semplici come chiedere con una lettera aperta al Primo Ministro greco Mitsotakis e alla Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea la chiusura immediata del campo di concentramento di Kera Tepe, la liberazione di tutti i prigionieri con la contestuale concessione della carta blu.

È più che mai urgente pretendere un’Europa in cui la legge non si declini in crudeltà e il diritto non sia soltanto quello del più forte, un’Europa che possa essere Luogo anche per gli esclusi.

2 Commenti a “L’Europa finisce a Lesvos”

  1. L’Europa finisce a Lesvos – Eutopia scrive:

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