Liberazione e ritorno
20 Gennaio 2015Claudio Natoli
Pubblichiamo l’intervento introduttivo di Claudio Natoli sullo spirito del 1945 della Liberazione insieme alla locandina e al programma della Giornata della memoria, che si svolgerà a Cagliari Martedì 27 gennaio 2015 alle ore 15.30 nell’aula magna del corpo aggiunto del polo umanistico di Via Is Mirrionis. (Red)
Cercherò di riflettere in questo intervento introduttivo sulla profonda soluzione di continuità segnata dalla Liberazione e, parafrasando il titolo di un bellissimo film di Ken Loach, sullo Spirito del 1945: in particolare, su come questo evento fondativo abbia inciso nei decenni successivi sulla costruzione di una nuova Europa democratica e su quale sia il messaggio che la Liberazione può ancora trasmettere al tempo presente.
Da questo punto di vista, un punto di riferimento essenziale è costituito dalla la profonda frattura segnata nella storia del mondo contemporaneo dalla crisi generale che aveva investito l’Europa nel periodo tra le due guerre, dalla tragedia epocale della seconda guerra mondiale e dalla “rottura di civiltà” che Auschwitz occupa in questo contesto. E’ bene precisare che, come risulterà dalle relazioni di questa sera, la percezione del ‘900 come “secolo di Auschwitz” ha costituito un’acquisizione a posteriori che si è affermata a decenni di distanza, ed è ben noto come resistenze, ritardi e molteplici processi di rimozione abbiano ostacolato a lungo in Europa la rielaborazione della memoria e le stessa ricerca storica sulla Shoah.
Il primo tema su cui è importante oggi riflettere è allora la consapevolezza che il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale non solo non ha costituito un evento estraneo alla storia della società occidentale, ma è stata la manifestazione più eclatante di una crisi della civiltà liberale di fine ‘800 e degli assetti istituzionali degli Imperi del centro e dell’est Europa che risaliva all’incontro tra imperialismo, guerra, tecnica moderna e avvento dello Stato moderno del XX Secolo. I sintomi di questa crisi appaiono l’emergere nella scena pubblica di un razzismo intriso di darwinismo sociale, alimentato dall’imperialismo, dalla conquista dei territori e dai massacri delle popolazioni coloniali, vittime predestinate del progresso e delle pretese di superiorità della civiltà europea, cui corrispose l’affermarsi del nazionalismo e dell’antisemitismo moderno, che si andava a sovrapporre negli stereotipi e nelle simbologie a quello ben più antico di origine religiosa, ed infine il nuovo modello organicistico di Stato, di società e di integrazione delle masse che tali fenomeni sottendevano. La crisi dell’Europa liberale aveva avuto aveva la sua prima sconvolgente manifestazione nella mobilitazione totale, nell’onnipotenza degli apparati amministrativi e militari, nella lotta contro le minoranze nazionali di confine e i cosiddetti “nemici interni”, nella morte di massa sui fronti legittimata da tutti gli Stati belligeranti, sperimentate già al tempo della prima guerra mondiale. Ad esse avevano fatto seguito la rivoluzione russa e le rivoluzioni del primo dopoguerra, la crisi dei sistemi politico-istituzionali prebellici e il passaggio traumatico alla democrazia nel centro Europa, l’esasperazione dei nazionalismi, i problemi territoriali e istituzionali lasciati irrisolti dai trattati di pace, l’avvento al potere del fascismo in Italia e la sua internazionalizzazione sotto l’impatto della “grande crisi” del 1929. In particolare, dopo la presa del potere di Hitler nel 1933 si era affermato un modello di Stato totalitario proiettato verso l’espansione imperialista e fondato non solo sulla distruzione della democrazia, ma anche su una asserita comunità popolare che sanciva meccanismi di inclusione e di esclusione su basi politico sociali e su basi razziali, che privava una parte della popolazione di ogni diritto e che aveva ispirato lo stesso fascismo italiano con la proclamazione dell’Impero e con la svolta verso il razzismo e l’antisemitismo di Stato.
Il dilagare del fascismo in Europa nell’impotenza, nella connivenza o anche nel sostegno delle élites liberal-conservatrici, le modalità dello scatenamento della seconda guerra mondiale, e soprattutto la sconvolgente realtà del “nuovo ordine” nazi-fascista imposero al continente europeo l’annientamento dei diritti e l’onnipotenza dello Stato discrezionale, la gerarchizzazione sociale e razziale, l’oppressione e lo sfruttamento delle popolazioni invase sfociata nell’abnorme crescita del sistema dei campi di concentramento e giunta nell’Europa orientale sino alla pianificazione di politiche di schiavizzazione e di sterminio di milioni di persone, la deportazione e il genocidio degli ebrei europei attraverso le “fabbriche della morte” dei campi di sterminio. Tutto ciò non poteva non conferire alla seconda guerra mondiale il carattere inedito di uno “scontro di civiltà”. La “grande alleanza antifascista”, anche al di là delle stesse intenzioni e dei progetti geopolitici dei “tre grandi”, avrebbe assunto così, nella mobilitazione degli eserciti e nelle molteplici forme di resistenza dei popoli, un contenuto politico e ideale al cui interno la disfatta delle forze dell’Asse veniva percepita come la premessa per l’avvento di un mondo totalmente rinnovato. In questo contesto i movimenti della Resistenza, nelle loro diverse forme di espressione, avrebbero sempre più assunto i tratti di un riscatto contro lo stravolgimento dei valori di libertà, di autodeterminazione e di uguaglianza tra i popoli impersonato dal dominio dell’occupante e dei suoi collaboratori. Ciò prefigurava un modello di rapporti sociali e di relazioni tra le diverse nazioni fondato su principi di cooperazione e di solidarietà che assumeva gli accenti di un nuovo umanesimo. E’ questo forse il messaggio più alto delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, dalle quali traspare, al di là delle motivazioni politiche, delle fedi religiose e delle appartenenze nazionali, la ferma convinzione di contribuire alla nascita di un mondo nuovo, più libero e più giusto: ed è questa convinzione che infonde alle lettere dei condannati a morte della Resistenza quella straordinaria tensione ideale che fece individuare a Thomas Mann in questa “gioventù europea” animata dalla fede, dalla speranza e dalla volontà di resistere contro lo scempio del proprio paese, contro l’onta di un’Europa hitleriana e “l’orrore di un mondo hitleriano”, l’avanguardia di una “migliore società umana”.
E’ a questo clima che bisogna riferirsi se si vuole comprendere il profondo rinnovamento delle culture politiche che investì in quegli stessi anni sia le forze della sinistra (comuniste e socialiste), sia quelle liberali e cattoliche. Tale rinnovamento affondava le proprie radici in parte nelle lotte di emancipazione del movimento operaio e nell’elaborazione più avanzata dell’antifascismo europeo degli anni ’30 nel senso della costruzione di una democrazia rinnovata, socialmente avanzata e fondata su una genuina partecipazione delle masse popolari alternativa non solo al fascismo ma anche ai sistemi liberali prebellici, in parte in un profondo ripensamento sulla catastrofe del ’29, sulla crisi della politica e dell’economia liberale e, non ultimo, sulle corresponsabilità delle élites dirigenti liberal-conservatrici e delle Chiese nel dilagare dei movimenti e dei regimi fascisti. Ma esso trovava uno stimolo e una sponda determinante anche oltre Atlantico nella figura del presidente Roosevelt e negli intellettuali a lui più vicini. Ed è di qui che si va affermando una nuova cultura dei diritti che tende a ridefinire e a riqualificare il concetto di libertà e di dignità della persona, le forme e la sostanza della democrazia e il futuro sistema delle relazioni internazionali.
Il primo punto fondamentale a me sembra sia stato l’allargamento della sfera pubblica dei diritti attraverso la ridefinizione del concetto di uguaglianza, il riconoscimento dell’indissolubilità dei diritti politici e sociali di cittadinanza e la costituzionalizzazione del lavoro come elemento fondativo dei nuovi patti costituzionali (esemplare in questo senso la nostra Costituzione). Al centro di questa costellazione vi era il principio che accanto alla sfera dei diritti politici e d’opinione e all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge esisteva un ambito molto più ampio di diritti universalistici in mancanza dei quali la libertà dell’individuo rimaneva una formula vuota: il diritto all’istruzione, il diritto alla salute, il diritto a una vecchiaia dignitosa, il diritto al lavoro alla sua tutela e a una retribuzione adeguata, il diritto alla salvaguardia dei beni comuni e quindi la priorità dell’interesse generale sul diritto di proprietà e sull’arricchimento individuale. L’adempimento di questi obblighi non poteva essere affidato a un’economia di mercato fondata sul profitto privato e quindi spettava allo Stato promuovere le condizioni perché questi diritti sociali potessero essere garantiti: e la prima condizione era l’espansione delle spesa pubblica, la ridistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione dei redditi più alti, la lotta contro la disuguaglianze, la promozione della piena occupazione; la seconda condizione era la programmazione economica, lo sviluppo della contrattazione collettiva, la tassazione progressiva e la fornitura a tutti i cittadini di servizi finanziati dallo Stato e sottratti alle logiche di mercato. Stiamo parlando dell’affenmazione del Welfare State nell’Europa del dopoguerra come modello sociale distinto dal sistema individualista americano e come momento di passaggio a una democrazia inclusiva e partecipativa perché fondata sulla coesione e sulla solidarietà sociale e sulla crescita della società civile. All’interno di questo sistema il lavoro organizzato svolgeva un ruolo fondamentale sia come interlocutore della politica economica, sia come soggetto di una democrazia diffusa a partire dagli stessi luoghi di lavoro, sia come attore politico attraverso i partiti socialdemocratici e gli stessi partiti comunisti di massa dell’Occidente (pensiamo alla funzione insostituibile del PCI nella costruzione della democrazia repubblicana), sia come impegno civile degli intellettuali e della cultura che facevano riferimento alle forze della sinistra. Ma questo patrimonio politco e culturale non era esclusivo della sinistra: vorrei ricordare che molti di questi principi erano stati anticipati da un grande economista liberale di cui nell’ultimo ventennio è stato cancellato persino il nome, e cioè John Maynard Keynes, e che, accanto ai laburisti inglesi, ai socialdemocratici svedesi e a un altro grande economista come Gunnar Myrdal, uno dei padri fondatori del Welfare fu il liberale britannico lord Beveridge e che anche gli esponenti del cattolicesimo democratico dettero nel secondo dopoguerra un grande contributo allo sviluppo dello Stato sociale.
Il secondo punto fondamentale, direttamente derivante dal ripudio della politica razzista e imperialista impersonata dalla Germania nazista e dai suoi alleati, fu costituito dalla affermazione sul piano universale del binomio pace-diritti umani come punto di non ritorno della nuova comunità internazionale da costruire dopo la disfatta delle forze dell’Asse. Oltre che nei programmi politici dei movimenti della Resistenza, i diritti dei popoli all’uguaglianza e all’autodeterminazione, i diritti umani, la salvaguardia della pace da parte della comunità delle nazioni e il ripudio del ricorso unilaterale alla guerra da parte degli Stati troveranno una importante codificazione dapprima nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, cui fece seguito nel 1960 un’altra impegnativa risoluzione sul diritto all’indipendenza dei popoli coloniali. In precedenza il processo di Norimberga, istruito dagli Alleati vincitori contro i criminali nazisti aveva elevato a norma giuridica la nozione di “crimini contro l’umanità”.
Il complesso di questi fattori, insieme al pieno disvelamento della realtà dei campi di concentramento e di sterminio, può aiutarci a comprendere come il secondo dopoguerra abbia rappresentato un punto di svolta nella storia del razzismo e un sensibile regresso delle ideologie e delle pratiche razziste in Europa. Si invertirà così una linea di tendenza che dal colonialismo di fine ‘800 e dalla diffusione del moderno antisemitismo sino al razzismo di Stato dei regimi fascisti non aveva cessato di rafforzarsi nei primi decenni del ‘900. Certo, l’irrompere della “guerra fredda” avrebbe costituito in tutto il mondo un formidabile ostacolo all’affermazione della nuova cultura della pace e dei diritti umani, avrebbe nel campo occidentale, segnato una provvisoria “rivincita” delle forze moderate e conservatrici, sino a rilegittimare regimi autoritari ed eredi diretti del fascismo e la sopravvivenza di ordinamenti e Stati razzisti in Sud Africa in Rodesia, nei domini coloniali europei e negli stessi Stati Uniti, mentre d’altra parte avrebbe aperto la strada alla sovietizzazione forzata dei paesi dell’est europeo e a una rinnovata glaciazione in URSS e nell’intero “campo socialista”, che anche dopo la morte di Stalin avrebbe resistito ad ogni sostanziale tentativo di riforma. D’altra parte, anche Auschwitz negli anni più acuti della guerra fredda non tardò a divenire una memoria scomoda: e questo perché non chiamava soltanto in causa il ruolo determinante svolto da Hitler, dalla dirigenza nazista e dalle SS, ma anche uno spettro molto più ampio di corresponsabilità che andavano dalle élites tradizionali del potere che avevano sostenuto il regime e la sua devastante espansione sul continente europeo, ai silenzi delle Chiese, all’apatia, all’indifferenza, al rifiuto di vedere e di sapere da parte della maggioranza della popolazione tedesca. Ma vi erano anche le corresponsabilità del fascismo italiano e di tutti i governi collaborazionisti e degli Stati satelliti della Germania nazista, senza il cui volenteroso concorso la Shoah a livello europeo non sarebbe stata possibile, e quindi la questione dei comportamenti dei governi e delle burocrazie, ma anche degli atteggiamenti delle popolazioni in tutti i paesi dell’Europa compresi nella sfera egemonica del nazi-fascismo. Cosicché, come ha ricordato Primo Levi, i sopravvissuti non trovarono per molto tempo interlocutori disposti ad ascoltarli e finirono per scegliere il silenzio piuttosto che la testimonianza.
E tuttavia, ad un bilancio complessivo, si può affermare che l’”onda lunga” dell’universalità dei diritti avrebbe continuato ad agire nel profondo nei decenni successivi, sia influenzando la rinascita democratica e civile dell’Europa all’insegna dell’intreccio tra liberalismo economico e democrazia sociale nel quadro del Welfare State, sia aprendo la strada a un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni e un enorme lavoro di ricerca sulla Shoah che è stato portato avanti a partire dagli anni ’60 dagli storici tedeschi e dalla storiografia internazionale, sino ad investire le corresponsabilità dei singoli paesi, dalla Francia di Vichy all’Italia fascista, sia fornendo un impulso determinante ai movimenti di liberazione nel Terzo Mondo e alla scomparsa degli Stati e degli ordinamenti razzisti (pensiamo al Sud Africa di Nelson Mandela o al movimento per i diritti civili di Marthin Luther King negli Stati Uniti), sia infine creando movimenti e correnti di opinione pubblica in grado di contrapporsi e di condizionare la politica dei governi e degli Stati: si pensi ai traumi della guerra di Algeria o della guerra del Vietnam, o alle crisi determinatesi all’interno e all’esterno del campo sovietico e del movimento comunista a seguito del soffocamento della rivoluzione ungherese del ‘56 o della “Primavera di Praga”. E’ significativo che l’estremo tentativo di riforma del sistema sovietico avviato alla fine degli anni ’80 da Gorbacëv, un tentativo come sappiamo destinato al fallimento, sia stato intrapreso facendo riferimento a questo stesso patrimonio politico e ideale.
Concludo. Parlare dell’universalità dei diritti nel mondo dei nostri giorni non è possibile senza provare una sensazione di disagio. All’apparenza, la retorica dei diritti umani è al centro oggi più di ieri del messaggio assordante dei mass media, e d’altra parte è pur vero che la memoria della Shoah è stata ormai pienamente assunta dalla cultura, dalle istituzioni, dalla comunicazione politica e dall’informazione mediatica e fa parte, si può dire, della nostra vita quotidiana. E tuttavia dobbiamo mettere in guardia contro la retorica celebrativa, i fenomeni di semplificazione e di decontestualizzazione che si stanno verificando, in particolare nella fase più recente. E d’altra parte, non stiamo assistendo oggi all’affermarsi di modelli politici, sociali e culturali che sembrano costituire il rovesciamento dei principi fondanti della rifondazione democratica dell’Italia e dell’Europa nel secondo dopoguerra, dopo la disfatta del nazifascismo? Non siamo di fronte a processi di svuotamento di tipo plebiscitario della democrazia rappresentativa, alla formazione di nuove oligarchie tra il mondo degli affari, il sistema dell’informazione e i vertici del potere politico, a un progressivo smantellamento delle politiche e dei legami di solidarietà sociale in nome del ritorno all’individualismo e di una teologia del libero mercato che aggredisce i diritti fondamentali all’istruzione, alla sanità, ai trattamenti pensionistici, alla tutela dei lavoratori e dei beni comuni, e trasforma le persone in cose da usare e da gettare e che dovrebbe tornare a sancire il primato dei più ricco e del più forte? Forse non è inutile ricordare qui quel passo in cui Primo Levi individuava nella “esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo” la realtà di disumanizzazione tipica del Lager: un passo che oggi paradossalmente ci sembra più vicino e più attuale di ieri. E non è in atto da anni un deperimento delle grandi istituzioni sovranazionali preposte alla tutela della pace e del diritto internazionale e alla lotta contro il sottosviluppo, nonché una rilegittimazione dell’”unilateralismo” e del ricorso alla guerra come strumento di dominio neocoloniale e come soluzione delle controversie tra gli Stati? Le grandi correnti migratorie verso i paesi dell’Occidente sviluppato, lungi dal determinare un intervento internazionale concertato contro la fame, il sottosviluppo e le guerre locali per l’accaparramento delle risorse sempre più scarse, non stanno generando rinnovate politiche e culture della discriminazione e dell’esclusione che si rivolgono –pensiamo agli immigrati e Sinti e Rom- contro gli strati più deprivati della popolazione?
Tutto ciò può creare il terreno più propiziosia per lo sviluppo dei fondamentalismi politico-religiosi, sia per il risorgere di movimenti populistici, nazionalistici e di segno neofascista, della xenofobia e dell’antisemitismo, nonché di ogni possibile forma di razzismo vecchio e nuovo. L’atomizzazione sociale sviluppa il conformismo e l’isolamento delle persone, ma al tempo stesso crea una ricerca di sicurezza e di identità che illusoriamente si rivolge contro tutti i “diversi”, verso il clan, l’etnia, la comunità locale, la contrapposizione religiosa, e che costituisce la negazione dell’universalismo e della partecipazione democratica.
Per questo non possiamo ricordare oggi Auschwitz senza interrogarci sui pericoli che minacciano la nostra democrazia, sulle nuove forme di precarizzazione e di esclusione di massa che espropriano il lavoro e le persone della propria dignità e sottraggono alle giovani generazioni la possibilità stessa di costruirsi un futuro. Non possiamo ricordare Auschwitz senza riferirci all’eredità della Liberazione, e quindi senza parlare della democrazia come partecipazione, dell’universalità dei diritti, dell’indissolubilità tra diritti politici e diritti sociali di cittadinanza, della cultura della pace e della solidarietà,del dialogo tra le diverse culture. La memoria di Auschwitz deve allora rimanere una memoria viva, perché, come ci ha insegnato Primo Levi, non ci parla di un passato definitivamente tramontato: all’opposto pone interrogativi al nostro presente, educa all’autonomia nei confronti dell’autorità, degli stereotipi e delle rappresentazioni mitologiche, e proprio per questo può aiutarci a orientare i nostri comportamenti di ogni giorno e forse anche a immaginare e a progettare un futuro più rispondente ai più autentici bisogni umani.