Il costante piacere di vivere
16 Dicembre 2007Gianluca Scroccu
Fu Luigi Pintor a dire che quella del fratello Giaime «è una figura originalissima, di difficile comprensione, quasi un personaggio da romanzo, che andrebbe interpretato in chiave poetica: così freddo e razionale eppure capace di tradurre in quel modo i romantici tedeschi; partecipe del momento storico eppure sempre indipendente e autonomo». Per fortuna abbiamo ora una biografia Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor (Utet, pag. 640, euro 24), bellissima e documentata allo stesso tempo, che permette di ricostruirne al meglio il profilo; volume che si deve al lavoro certosino, paziente e appassionato, su un vastissimo materiale d’archivio e di testimonianze dirette, raccolto in più di dodici anni dalla giovane ricercatrice Maria Cecilia Calabri, già curatrice per Einaudi del carteggio fra Giaime e Filomena D’Amico. Quale può essere il carattere più significativo della vita di Giaime che emerge dal libro? Sicuramente la sua “breve esistenza” può essere presa come paradigma di tutta una generazione, quella nata tra il 1915 e il 1920, definita non a caso di “mezzo” perché non conobbe altro se non il panorama del fascismo, a differenza di ciò con cui entrò in contatto la generazione precedente che visse nel primo ventennio del Novecento. Entrambe avevano però un tratto comune, vale a dire la non comune concentrazione di intelligenze precoci (basta solo fare riferimento a quello straordinario personaggio che fu Piero Gobetti, peraltro morto alla stessa età di Giaime); e in questo senso non si può concordare con Norberto Bobbio, il quale si è giustamente chiesto se nella storia contemporanea italiana vi siano altri esempi di personalità capaci di esprimere in così poco tempo una tale mole di produzione intellettuale e culturale (Bobbio parla nello specifico di Gobetti, ma è evidente come le sue parole si possano benissimo accostare anche a Giaime Pintor, a cui, del resto, era legato per la comune collaborazione con la casa editrice Einaudi). Ripercorrendo la biografia di Giaime, l’autrice ricostruisce molto bene la crescita e la maturazione di quei giovani formatisi negli anni del consolidamento totalitario del regime mussoliniano che proprio sulla creazione di una nuova generazione aveva puntato per arrivare alla costruzione della “Terza Italia”, ovvero quella fascista. Un’illusione, questa del fascismo di riuscire a creare una generazione nuova e ligia ai canoni del regime, perché quei giovani si confrontavano sì con un mondo grande e terribile all’interno delle dinamiche di uno stato totalitario, ma con tutte le contraddizioni della loro età. «Aveva una maturità quasi sconcertante, anche nei tratti fisici, e una mescolanza di aspetti estremamente infantili e gioiosi, che era poi di tutti noi», così lo definisce il suo amico Aldo Garosci. E in effetti Giaime era pur sempre un ventenne, che oltre all’impegno intellettuale riusciva a dedicare uno spazio importante, come si ricava leggendo gli stralci del carteggio utilizzato dall’autrice, a quelle che sono, in sostanza, passioni comuni ai giovani di tutte le generazioni (le amicizie e gli amori, i viaggi e i racconti della quotidianità). Il libro ci restituisce così il personaggio in tutta la sua complessità e umanità, e ci riesce facendolo calare in pieno nel suo mondo e nelle contraddizioni del suo tempo, che è poi il modo più corretto per evitare quelle semplificazioni che portano spesso a quell’uso pubblico della storia che attraversa il dibattito, spesso sterile, di certe pagine culturali dei quotidiani. Ricerca del sensazionalismo storiografico che ha purtroppo alimentato le recenti e pretestuose polemiche sul Giaime che compie insieme a Vittorini (con cui, come racconta la Calabri, aveva una comune e appassionata curiosità verso gli Stati Uniti testimoniata dal saggio “Americana”) un viaggio a Weimar nel 1942 per assistere ad un convegno di letterati europei chiuso da un discorso di Goebbels, o quella sui suoi rapporti con i servizi inglesi durante la Resistenza. La sua stessa partecipazione alla guerra deve essere intesa nel suo significato più profondo: Giaime prende parte alla Seconda Guerra Mondiale perché capisce che non può stare fermo e che serve un impegno disperato per ricostruire il senso della nazione, un po’ come quello di quel Carlo Pisacane a cui aveva dedicato un interessante prefazione al “Saggio su la Rivoluzione”; non è un chierico che tradisce, né uno di quegli intellettuali che si fa sedurre dallo sforzo bellico, abdicando, spesso, dai suoi doveri di coscienza critica nei confronti della cittadinanza e su cui si è soffermato con intelligenza e acume Angelo D’Orsi in un suo recente saggio quanto mai attuale edito da Bollati Boringhieri e intitolato significativamente “I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad”. Ma è anche un giovane uomo che non si tira indietro pur avendo la consapevolezza che “senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari”. “Il costante piacere di vivere” di Giaime Pintor, che oggi possiamo comprendere e apprezzare nella sua pienezza grazie al lavoro di Maria Cecilia Calabri (che speriamo possa curare presto una nuova edizione del Doppio Diario), lascia ai giovani di oggi, in conclusione, un invito ad essere curiosi e a conoscere il mondo, e l’Europa in particolare, per confrontarsi con altre culture. E tutto questo nonostante la sua vita sia stata spezzata a 24 anni saltando su una mina durante i primi mesi della Resistenza, senza che il suo corpo potesse essere subito recuperato e sepolto, se non in maniera provvisoria e grazie alla pietà dei contadini dei dintorni di Castelnuovo al Volturno, in un semplice campo come il soldato de “La Guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè (prima della definitiva sistemazione anni dopo al cimitero del Verano). Un’esistenza drammaticamente interrotta, quella di Giaime Pintor, ma che è riuscita a comunicare, alle generazioni successive sino alla nostra, che la vita, anche da giovani, vale la pena di essere vissuta in pieno e con coraggio.