L’identità al molino

1 Maggio 2010

Mulino

Giulio Angioni

Poco si parla del Museo dell’identità della Sardegna (MIS), da fare a Nuoro, nell’edificio dell’ex Molino Gallisai, Su Molinu. Come si fa a museificare l’identità di un popolo, se le identità sono quella cosa fluida, fluente, plurima che tutti vedono per poco che ci si rifletta? Bisogna poter rappresentare il flusso, il cambiamento, l’adattarsi e il meticciarsi. Mentre è facile la ricerca di essenze immutabili, di tratti inalterati e irrinunciabili del proprio essere impareggiabile. Sul MIS mi è stato chiesto un parere. E io mi sono attaccato a quest’ancora di salvezza, e forse anche bussola per un cammino che porti a un approdo meno incerto: mi sono concentrato sul luogo, sul Molino Gallisai, residuo, reperto di archeologia industriale che potrebbe dirla lunga sul come eravamo nei primi tre quarti del Novecento. Il Molino Gallisai come possibile museo di se stesso, testimonio di un’epoca.
In Sardegna la documentazione delle attività, degli impianti e dei prodotti industriali pone problemi notevoli e di qualche peculiarità. Non solo perché tutta la storia dell’isola può essere vista come caratterizzata dal prevalere, nel lungo periodo, della conservazione e della tradizione sulla trasformazione e l’innovazione, del freddo sul caldo. Come e più che per altri luoghi d’Europa, in Sardegna è significativa la ricostruzione del lento superamento della dimensione domestica di produzione, sia con l’utilizzazione di fonti di energia diversa da quella umana e animale, sia con modi di organizzazione complessa del lavoro e di divisione del lavoro che preveda gerarchie definite da livelli di specializzazione e dal possesso delle condizioni della produzione. Ne è un esempio l’introduzione dell’energia idraulica applicata ai mulini o alle gualchiere, che hanno formato una rete abbastanza fitta di impianti lungo fiumi e torrenti soprattutto della Sardegna settentrionale e centrale, isolati o in serie lungo le valli. La storia dell’utilizzazione produttiva dell’energia idraulica in Sardegna, che altrove ha rappresentato il primo passo della rivoluzione industriale e che qui è rimasta fonte secondaria di energia, contribuirebbe alla spiegazione sia del tipo di sviluppo sia del mancato sviluppo negli ultimi secoli.
La storia di tanti veri o presunti fallimenti di intraprese industriali, insomma, qui sembra altrettanto se non più importante che altrove. Ma non ci sono stati solo i fallimenti. Il grande passaggio all’era industriale in Sardegna si ha comunque con l’introduzione dell’energia a vapore, di cui va ricostruita la storia delle applicazioni, dalle miniere ai mulini e ai frantoi, sia in città sia nella campagna, passaggio sancito irreversibilmente tra le due guerre mondiali dall’introduzione dell’energia elettrica, che viene adottata anche, e forse quantitativamente in prevalenza, dalle piccole attività produttive artigiane. In Sardegna, così, come e più che altrove, è indispensabile e significativo documentare le forme e le condizioni del passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale: ma con un’attenzione resa accorta dal fatto che i due modi di produzione, artigianale e industriale, vanno individuati e studiati in un’ottica ricalibrata sulle peculiarità, quantitative e qualitative, che queste attività hanno avuto e continuano ad avere in Sardegna.
La peculiarità sarda più importante, sebbene non esclusiva specialmente in ambito mediterraneo, è stata il permanere dell’isola in una condizione rurale, agropastorale. Con la conseguenza che le produzioni locali, anche di tipo industriale, si sono per lo più concentrate nel fornire oggetti, strumenti e materie prime non solo per il consumo individuale e familiare, ma anche per i consumi produttivi dell’agricoltura e della pastorizia e poi nelle lavorazioni di prodotti agricoli e pastorali. Per cui, per esempio, le industrie metalliche sarde hanno anche e forse soprattutto prodotto materie prime e strumenti destinati a usi agricoli con o senza l’intermediazione di lavorazioni di artigiani locali, che sono stati sicuramente importanti come intermediari nell’adeguare non solo le serie standardizzate dell’industria, ma anche nell’influire sul fenomeno poi denominato industrializzazione dell’agricoltura e quindi dei prodotti dell’agricoltura, come la molitura delle granaglie e poi la panificazione. I laboratori artigianali, e in particolare certi centri tecnici più importanti che erano già specializzati nel fornire strumenti per l’attività agropastorale (San Vito e Santu Lussurgiu per i carri, Tonara per i sonagli, Pattada per i coltelli e così via), sono essi stessi ambienti tecnici complessivi di particolare interesse, essendo gli addetti in contatto con l’evoluzione dei saperi e delle tecniche industriali che venivano introdotte nelle botteghe con adattamenti agli usi e ai modi della piccola produzione locale.
E se poi a monte delle attività agropastorali sono sorte nel Novecento attività industriali locali più o meno precarie che fornivano anche materie come i concimi, le sementi e i mangimi, è soprattutto a valle delle grandi attività tradizionali agropastorali che sorgono attività di tipo industriale come i caseifici e le concerie, i molini e i pastifici, i sugherifici e le cantine. La caseificazione industriale introdotta in Sardegna alla fine dell’Ottocento da casari continentali per produrre il pecorino romano per il mercato mondiale, per esempio, è un fenomeno di enorme importanza tecnica, ecologica, sociale e politica, che è urgente documentare soprattutto nel Nuorese e nella stessa città di Nuoro. Sempre per il periodo tra Ottocento e Novecento si pone il problema della documentazione delle attività tessili che escono dall’ambito domestico femminile e diventano anche attività industriali locali seppure nella forma del lavoro disperso a domicilio, come è il caso della produzione cagliaritana de su serenicu da parte di una colonia di greci di Salonicco.
Il complesso delle imprese nuoresi dei Guiso Gallisai, e in particolare il “Molino Gallisai” (che inizialmente funzionava a vapore), è da collocare in un tale quadro complessivo. Su Molinu a Nuoro ha mediamente impiegato anche oltre un migliaio di dipendenti per circa un novantennio.
Lo stesso vale per altre attività tradizionali come la pesca, con le sue tonnare e peschiere e con i suoi più o meno piccoli cantieri navali. O per la ceramica, come esempio importante. A parte l’esistenza di vere e proprie industrie ceramiche nelle città e i tentativi di sfruttamento industriale dei depositi argillosi dappertutto in Sardegna, la produzione ceramica è per il senso comune medio sardo ancora oggi concepita come paradigmatica della piccola produzione artigianale in cui si specializza il produttore singolo con attrezzatura a forza umana secondo moduli tradizionali antichissimi. Ma anche quella della ceramica è stata un’industria con complessa organizzazione interna del lavoro, che prevedeva tutto il ciclo dalla cava al forno e che pure in Sardegna ha una sua storia tecnico-sociale che di recente ha avuto un momento di innovazione e trasformazione importante con l’introduzione dell’energia elettrica nel tornio e poi nel forno. E anche per la ceramica, altro settore di produzione delle imprese Guiso Gallisai, si pone il problema della documentazione sui centri principali di produzione come Assemini e Oristano, Dorgali e Pabillonis, che servivano larga parte dell’isola.
La molitura delle granaglie, la panificazione e la pastificazione sono un esempio importante dei modi del passaggio dalla produzione domestica a quella artigianale specialistica e in qualche caso, soprattutto urbano, come a Nuoro nel caso del “Molino Gallisai”, direttamente alla produzione industriale. Ed è ancora ispirandosi a imprese efficienti come quelle dei Gallisai che nel secondo dopoguerra in Sardegna sono state iniziate anche nell’interno decine di piccole produzioni industriali di paste alimentari dal grano duro sardo, imprese che sono quasi sempre rapidamente fallite, a parte casi eccezionali come a Nuoro il “Molino Gallisai” e a Siddi in Marmilla il pastificio Puddu.
Per la Sardegna, anche per il suo interno e in particolare per Nuoro, se si trascurasse la documentazione dell’intreccio tra piccola produzione locale artigiana e media e grande produzione locale industriale, ambedue legate anche a tipici e peculiari bisogni individuali e produttivi locali, in tema di ricostruzione della storia e dell’identità isolane si rischierebbe di avere un oggetto di studio esile e fuorviante, che non consente di illuminare modi ed esiti molto significativi delle dinamiche tecno-socio-economiche e quindi culturali degli ultimi due secoli.

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