Life after Oil, un occhio al futuro l’altro al presente
27 Luglio 2014Paola Pilisio
«Come sarà la vita sulla terra quando finirà il petrolio?» Questo tema verrà affrontato a Martis nel corso della rassegna cinematografica « Life after Oil» prevista dal 1 al 3 agosto. Riteniamo questa iniziativa importante per un approfondimento del dibattito intorno all’uso delle fonti energetiche. Intanto pubblichiamo un articolo di Paola Pilisio. (red)
« Come sarà la vita sulla terra quando finirà il petrolio? » Domanda difficile e in cerca di risposte. A Martis, piccolo paese del Nord Sardegna, si proverà ad abbozzare un’idea di futuro sostenibile durante la rassegna cinematografica « Life after Oil » prevista dal 1 al 3 agosto. Il festival nasce da un’idea di Massimiliano Mazzotta e Antonio Caronia. Dopo aver prodotto il primo documentario, ‘Oil 1 – L’oro nero dei Moratti ‘, che ha causato a Mazzotta più di un problema giudiziario e professionale, ecco che dall’incontro tra Mazzotta e Caronia nasce Oil 2. Ma i due non si fermano e si pongono la fatidica domanda « cosa accadrà una volta che si esauriranno le risorse di petrolio ? ». Purtroppo, Antonio Caronia se ne va il 30 gennaio 2013, ma Massimiliano é ingaggiato nella promessa e porta avanti il progetto. Martis non é stato scelto per caso, é uno dei 19 comuni sardi interessati dal progetto di sfruttamento di risorse geotermiche ‘Martis’ che nasce con l’obiettivo di trivellare 270,50 Km quadrati di interesse agricolo, pastorale e paesaggistico. E, precisazione necessaria, se nel sottosuolo ci dovessero essere idrocarburi o, poniamo il caso, minerali reddittizi, i permessi verrebbero facilmente convertiti dal labor limae di politici e funzionari. Con l’effetto di moltiplicare le cave a cielo aperto. I documentari presentati arrivano da tutte le parti del mondo, sono 19 e la cosa interessante é che in Birmania, come in Germania, tutti dicono la stessa cosa, o almeno tutti si pongono lo stesso problema, ovvero individuare delle alternative possibili agli attuali modelli di produzione. Il Life after oil film festival è dunque un pensiero proteso verso un futuro ineluttabile – ed è forse questo il segno di Caronia sul progetto- cui si affianca una preoccupazione presente. E molto tangibile. Così il Life after Oil film festival è anche un momento di resistenza agli smodati appetiti dei signori dell’energia supportati dai lauti incentivi di Stato (a tal proposito, è utile notare che questo settore della spesa pubblica non è stato interessato da tagli).
Sardegna, una piattaforma energetica in mezzo al Mediterraneo
Martis, come Porto Torres, Sarroch (i Moratti non si limitano a raffinare, producono energia sovvenzionata con gli scarti della raffinazione del petrolio, per legge assimilati alle rinnovabili) e decine di altri paesi in Sardegna, è dunque un luogo simbolo della battaglia contro quel fenomeno che oltre 50 comitati popolari dell’isola hanno chiamato « speculazione energetica », che poi altro non è che una riedizione delle mille febbri dell’oro susseguitesi nel corso della storia o, più precisamente, un colpo di coda della seconda rivoluzione industriale in salsa finanziaria. Una recrudescenza attualizzata dei vecchi Piani di Rinascita per rimanere ancorati al contesto sardo e al dettato della modernizzazione (il contesto non è certo un orpello della teoria).
Ma rimaniamo sulla scottante attualità della domanda posta dal festival, perché una questione sollevata a Martis oggi risuona in tutto il globo. E’ infatti chiaro che la nuova febbre dell’oro è resa ancora più acuta dalla partita sulle risorse energetiche che coinvolge U.S.A, Russia e Unione Europea. La domanda chiave è la seguente : da chi devono rifornirsi gli stati che non possiedono una propria indipendenza energetica (Italia compresa) ? Un”altra domanda – questa retorica – è « perché non sfruttare le cosidette risorse endogene ? ».
Quali sono, dunque, gli esiti della contrapposizione delle forze e degli interessi in campo ? Semplice, tutti i diversi attori presenti nello scacchiere, compresa la ‘nazione’ si rivelano in grado di seguire traiettorie vincenti e trovano spazio in Sardegna (e non solo).
Si chiudono accordi per il gas di scisto americano tramite la controllata Enel ‘Endesa’ e si aprono le porte alla texana Schulemberger che vorrebbe trivellare il Mar di Sardegna, mentre per i russi, che nel frattempo arrivano in Sardegna (a Sarroch e a Portovesme), rimane in piedi il metanodotto South Stream. Parallelamente si promuove la realizzazione di nuovi rigassificatori (in maniera tale da rimettere in gioco i soliti noti ovvero E-on, Saras, Eni e la stessa Enel). Allo stesso tempo si accolgono le istanze dei piccoli produttori, che depositano richieste di sfruttamento per risorse energetiche di ogni tipo (idrocarburi, risorse geotermiche, sole, vento). In pratica, la Sardegna diventa il territorio ideale per regolare i conti con il capitalismo made in Italy e con l’imperialismo a stelle e strisce o quello russo più debole. E in questo non c’è nessuna novità : la storia dell’Alcoa, con l’Enel da una parte e gli americani dall’altra è in tal senso emblematica. MILIARDI
Oggi invece i russi della Rusal firmano a Roma per rilanciare l’EuroAllumina : 75 milioni di euro il prestito concesso dallo Stato, mentre la finanziaria regionale Sfirs è in prima linea per la realizzazione di una nuova centrale a carbone. Così, oltre a quella nota di portaerei al centro del Mediterraneo, l’isola acquisisce un’altra funzione e si trasforma in piattaforma energetica per lo sviluppo di oltre Tirreno. Lo dicono i dati, con oltre 4.000 gigawattora esportati attraverso l’elettrodotto che collega la Sardegna alla penisola, lo lasciano credere le nuove centrali attualmente in costruzione e le numerose richieste per la realizzazione di uleriori impianti depositate presso la Regione e il Ministero dell’Ambiente (e c’è da preoccuparsi per il revival del carbone), lo confermano le intenzioni dell’Enel di costruire un nuovo elettrodotto capace di attraversare il Tirreno. E ancora più chiaramente lo affermano i tanti decreti emanati dal Consiglio dei ministri negli ultimi mesi (Destinazione Italia, Ambiente protetto e il non ancora presentato Sblocca Italia), che puntano a ridar vita alle vecchie aree industriali semi-abbandonate e totalmente inquinate.
Persino il presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi afferma che « bisogna guardare in casa e andare a caccia di petrolio e metano a largo della Puglia, in Basilicata, Sicilia e Sardegna ». E che non saranno « quattro comitatini » a fermarlo. A proposito, vogliono anche trivellare il Sulcis alla ricerca di metano.
La situazione oggi
Ora, se un festival cinematografico guarda di necessità al futuro, i comitati popolari che si battono contro la nuova febbre dell’oro devono per forza guardare al presente, chiedersi quali siano gli effetti di queste politiche rivolte al territorio e alla società intera, trovare il modo di romperle e creare le condizioni per la vita dopo il petrolio. Alcuni effetti sono in ogni caso già chiari : continuare a puntare sui combustibili fossili equivale a peggiorare le condizioni di salute delle popolazioni che vivono a ridosso delle aree industriali. Dove, cioè, risuona già il codice rosso dell’allarme come messo in evidenza dai recenti studi Sentieri. Il problema, in questo caso, è che mentre si approvano nuove centrali a carbone, per riprendere le ultime cronache industriali che riguardano il Sulcis, gli interventi di bonifica vengono condonati dal Destinazione Italia (da notare che il primo beneficiario di tale decreto è proprio lo Stato), mentre l’ultimo decreto legge ‘Ambiente protetto’ innalza i limiti di emissione delle sostanze inquinanti. Oltre ai danni alla salute delle popolazioni, è poi d’obbligo considerare le ricadute negative sul comparto alimentare. Ormai a giorni alterni, i comuni si trovano costretti ad emettere ordinanze per vietare il consumo del latte al piombo, della carne alla diossina, dell’uva al cadmio o del pesce al benzene. A rimetterci dunque sono pastori, agricoltori e pescatori.
Stando così le cose, le fonti rinnovabili sono certo una parte della risposta alla domanda « come organizzare la vita dopo il petrolio ?» posta dal festival, ma anche in questo caso si tratta di non cedere alle sirene che cantano « rinnovabile è bello ». La proliferazione indiscriminata di centrali a biomasse, parchi eolici o fotovoltaici dell’ultimo periodo mostrano infatti che un nuovo processo di espropriazione della terra (sia a causa dell’intervento diretto dello Stato sia tramite il contratto tra privati – il risultato è lo stesso) è in atto. Migliaia di ettari sono già finiti nelle mani delle electric companies.
Per un popolo, questo significa perdere la facoltà di decidere cosa fare della propria terra.
Prima si è accennato alla marginalizzazione del comparto agropastorale, ma il termine attacco è però insufficiente per rendere conto del processo in atto. Ciò che i comitati sono in grado di dire al momento è che iniziative come quella della Chimica Verde a Porto Torres e della Powercrop alle porte di Cagliari, che prevedono la realizzazione di due grosse centrali a biomassa, favoriranno la riconversione dell’intero comparto agropastorale. Si tratta di un processo di sussunzione già avviato : chi fino a ieri aveva un gregge, allevava bovini o piantava carciofi, oggi si mette a produrre triticale destinato alle caldaie delle centrali a biomasse. C’è di più : chi manda avanti l’allevamento verrà colpito dall’aumento dei prezzi dei cereali utilizzati per il mangime animale : tutto dovuto alla richiesta di granaglie per la combustione da una parte e alle mutate abitudini alimentari di ampie fette di popolazione mondiale dall’altra. Oggi infatti i consumatori di carne sono in aumento, specie nei paesi che hanno conosciuto una fase di espansione economica nell’ultimo decennio.
In genere si sostiene che le rinnovabili, e in particolare le biomasse, siano sostenibili anche da un punto di vista sanitario, ma occorre ricordare che il coefficiente di emissione delle biomasse è addirittura superiore a quello dell’olio combustibile. Vale a dire che a Porto Torres o a Macchiareddu (la zona industriale alle porte di Cagliari) diossine e furani si sommeranno agli inquinanti lasciatici in eredità dalle passate stagioni industriali.
E c’è di più : le centrali a biomassa in fase di realizzazione in Sardegna nascondono in realtà degli inceneritori per rifiuti. Di quale tipo di rifiuti si tratti non è ancora dato saperlo.
In ogni caso, le rinnovabili rimangono una parte della risposta alla domanda sollevata dal festival. Ma non si tratta di costruire impianti da rinnovabili in ogni fazzoletto di terra – casomai occorre puntare sugli impianti da rinnovabili di piccola taglia e sulla funzionalità energetica degli edifici.
Il punto è che la Sardegna è già indipendente da un punto di vista energetico. In altri termini, nell’isola sarebbe possibile avviare un processo di transizione verso l’energia pulita da domani, se solo lo si volesse : la potenza da fonti rinnovabili installata è infatti sufficiente a coprire il fabbisogno quotidiano dell’isola. I detrattori di questa ipotesi sostengono che i problemi dell’interrompibilità (il fatto cioè che un fotovoltaico interrompa la produzione di energia durante la notte o in assenza di sole, ad esempio) e dell’accumulo non siano risolvibili. Eppure basterebbe collegare questi impianti agli invasi e alle centrali idroelettriche. Di più, attraverso la gestione pubblica dei bacini idroelettrici sarebbe possibile anche abbattere i costi dell’energia o ipotizzare benefits per la collettività senza che a quest’ultima venga estorto niente : da domani l’illuminazione pubblica potrebbe essere gratuita. Ma questo significa rompere con l’oligopolio che governa l’isola.
A conti fatti, il neonato movimento dei comitati popolari ha davanti a sè una strada tutta in salita, ma ha gambe buone.
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