Lingua scottata da bollenti passioni
1 Luglio 2007Sante Maurizi
C’era un tempo nel quale l’uomo non usava parole, erano le cose stesse a fornire un vocabolario: «sas cosas, su mundu it totu unu vocabolariu». Lo racconta Michelangelo Pira in Sos sinnos. Il significato delle cose, del mondo, stava nell’esperienza che l’uomo ne faceva, e dalla memoria di quelle conoscenze era poi possibile astrarre delle idee. Gai matessi er de sas paraulas, capita nello stesso modo alle parole, il cui significato sta appunto nei concetti che l’uomo assegna loro. Ora, è vero che le parole possono essere inutili e spesso ingannevoli: se dico «l’asino vola» sas paraulas cogliònana, ma al tempo stesso comunico un’idea nuova, quella di un asino con le ali. È questa possibilità che permette all’uomo d’immaginare, di pensarsi e pensare il futuro. Con le parole egli ha realizzato la conquista più importante, e poter comunicare l’immagine di un asino che vola è un’esperienza che non ha confini: ha permesso di mettere somari su un aeroplano e a lor facher volare. Se però due uomini parlano lingue diverse, ecco che per comprendersi essi riprendono a trattare come parole le cose. Indicando un cavallo uno dirà caddu e l’altro horse, ma si capiranno perché avranno usato la cosa stessa, su caddu veru a ghisa de sinnu, il cavallo vero come segno. Avranno impiegato come lingua comune il mondo, su mundu che limba cumona a s’unu e a s’atteru.
Si ignora se la commissione sulla limba abbia utilizzato quelle pagine di Pira, e certo a qualunque bittese costa molto sentir parlare di limba comuna invece di limba cumona. Ma nel mondo di quell’asino chi possedeva la lingua possedeva anche la tecnologia, e l’animale riusciva a volare anche perché doveva riscattarsi da qualcosa, e aveva fiducia nelle parole come chiave del riscatto: abitava una Sardegna tra due lingue radicalmente diversa dall’attuale, come quel mondo che la contiene. Ormai neanche sapere una parola in più del padrone è sufficiente, visto che ai padroni basta usare un inglese di cento vocaboli per transitare capitali da sistemi che con le parole possono anche non avere niente a che fare. E il vocabolario che ci viene incontro quando entriamo in uno dei cento musei delle tradizioni popolari, stimola una domanda inevitabile: «che cosa esporranno di noi fra cinquant’anni?».
Nel gioco del datare la recente fioritura di romanzieri e registi cinematografici, il 1988 pare un anno chiave: con Procedura Mannuzzu sottrae la Sardegna all’esotico mentre approda nelle sale Disamistade, un film che prova a reinventare il genere «banditi» con inedita consapevolezza e padronanza di linguaggio. A chi gli chiedeva allora come mai un regista sardo di trent’anni avesse ancora voglia di raccontare di bardane e balentia, Gianfranco Cabiddu rispondeva che si era riusciti a metter su una produzione e una distribuzione solo perché si trattava di quella storia ambientata in quella Sardegna. In vent’anni, verrebbe da dire, le cose sono mutate, e si scrive e si legge e si dicono altre storie. Salvo poi rendersi conto che quell’arcadia della quale per Gianni Olla Padre padrone determina la fine al cinema, vende come e più di prima, assicurando prime-time in televisione come nel caso di Frontiera. L’esotico «tira» eccome, dappertutto: l’acquiescenza ai desideri del cliente accomuna il modo di vendersi degli hawaiani e dei maori e dei sardi, e non c’è da scandalizzarsi come in qualunque incontro tra domanda e offerta, nel quale alla fine è decisiva la pubblicità, la qualità della merce e il suo prezzo.
Ma è proprio questo il punto. Di quale merce stiamo parlando? Sarebbe produttivo iniziare a considerare il sardo sub specie Tartufi, al quale viene bene vendersi da luoghi bellissimi e autentici e unici, ma che non è secondo a nessuno nel possedere «la scienza elastica e variabile di smussare gli spigoli della coscienza»: nel dilapidare e imbruttire e incarognirsi. Il dubbio, insomma, è che quell’arcadia lavori da qualche parte anche sotto le faccende della limba, cicatrizzante universale, con l’aggiunta di una umana componente narcisistica tipica di tutti gli atti fondativi, e che trascura in questo caso di aver finalmente vinto una battaglia, magari oggi di retroguardia, giocata da pochi quasi due generazioni fa senza sponda istituzionale.
Insomma, il dubbio è che si consideri come fine invece che come mezzo quella lingua alla quale i sardi sono giustamente affezionati. Non la penserebbero come costante resistenziale, data la resistibile opposizione da essi mostrata verso altri oggetti che dei sardi dicevano quanto e ben più della verbalità. Non avrebbe, ultimo e minore esempio, Sassari sentito il bisogno di inventarsi un museo dell’identità cittadina in uno dei pochi suoi luoghi nei quali spazi e volumi avrebbero potuto parlare da soli, e dove invece una ristrutturazione arbitraria di una discutibile ricostruzione costringe a sovrapporre al teatro Civico faticose narrazioni.
Se quella passione mostrata nei confronti delle faccende della lingua i sardi esercitassero verso le sabbie, gli alberi, le pietre, l’acqua, forse gli oggetti materiali o meno che fanno la loro vita, i corpi e i luoghi abitati o attraversati, comunicherebbero di per se, e qualunque lingua sarebbe loro felice ma semplice ancella.
3 Luglio 2007 alle 09:12
Forse!
Ma perché ironizzare o accanirsi contro sa limba sarda comuna, quando si tratta solo di un timido tentativo di codificare il sardo scritto (solo scritto e non quello parlato). Oppure dobbiamo continuare, noi sardo-scriventi, ad improvvisare di volta in volta un metodo che poi non riusciamo a rispettare nemmeno noi stessi? Verificare la coerenza dei precedenti storici di qualunque epoca, tra i testi dello stesso autore, o addiritura nel testo medesimo.
Oppure dobbiamo continuare, come in questa occasione, a scrivere del sardo in italiano? E lasciare che il sardo viva (o forse muoia) come lingua esclusivamente orale?.
Saludos
3 Luglio 2007 alle 14:53
Il dato sul quale io rifletto è invece il nostro atavico provincialismo nel dibattito sulla lingua, per certi versi simile, per sterilità, al dibattito su alcune questioni sarde di questi tempi, che Sante “sfiora” magistralmente.
È poi ciò che ci impedisce di ragionare sul dato politico delle cose, lasciandoci andare a considerazioni accessorie che snaturano poi il significato vero delle cose.
Dell’operazione “limba cumona” infatti, (anche a Orosei si dice così!…) non si coglie il senso se non lo si valuta alla luce del rischio di scomparsa, molto più concreto di quanto si pensi; Analogamente, dell’operazione PPR, ad esempio, non se ne coglie la necessità e la “giustezza”, se non si riesce a cogliere la straordinaria portata politica nel campo della salvaguardia della nostra identità.
E ha ragione Sante nel dire che se NOI capiamo quanto vale un albero, il problema della difesa dell’identità attraverso una lingua istituzionale sarebbe davvero l’ultimo dei problemi.
4 Luglio 2007 alle 22:08
O Juvanne, la’ ca deu scriu in sardu e puru no ddu fatzu a bolu dònnia borta de una manera ki nimancu deu arrennèsciu a arrespetai…
Kistiona po tui!
E la’ ca ses tui ki ses scriendi de su sardu in italianu… Ita circas a is atrus ki nimancu tui donas s’esempru bonu?
Ma ki custa Limba Sarda Comuna ti praxit aici meda, est utilosa aici meda, poit’est ki no dda imperas e scris in italianu?
Saluti
(No est a fai sa kistioni in italianu e a saludai in sardu, est a s’imbressi…)
5 Luglio 2007 alle 17:14
So cuntentu chi bi siat carcunu chi iscriet in sardu, puru in custu blog.
Ma sicumente s’artìculu fudi in italianu, pro bona educazione apo respostu in cussa limba.
Mi dispiaghet si apo dau s’idea de unu barrosu chi bolet pònnere su tocu a sos àteros, ma cherio solu narrere chi innantis de andare contra a carchi cosa, diat èssere menzus a la connòschere bene.
Eo puru, a s’incominzu, fuo contrariu. Mi pariat una cosa artefatta. Apustis, connoschende sos motivos e su traballu chi sa commissione at fattu apo cambiau idea.
Como so provande a istudiare e a pònnere in pratica cussas regulas, e mancari mi siat traballosu, so cuntentu, ca so imparande a cumprèndere sos meccanismos de sa limba.
Mi mancat galu meda, ma mancat meda de prus a sos sardos pro tènnere una forma iscritta coerente e unu minimu de cuncòrdia nessi in custas cosicheddas.
Saludos a tottus.
6 Luglio 2007 alle 11:55
Di qualsiasi cosa si parli, è bene essere sempre chiari. E’ necessario specificare sempre qual è l’argomento di cui si tratta. Prendiamo l’Identità: di cosa stiamo parlando: di identità di genere, di clan, politica, sportiva, professionale, religiosa…Ogni persona, da questo punto di vista, possiede molte identità e può scegliere, alla fine, a quale di queste dare più importanza e con quali di queste identificarsi (appunto). Questa scelta comporta l’accettazione e la valorizzazione di un sistema di codici e di comportamenti che gratificano l’individuo e gli danno la certezza di appartenere ad un gruppo in cui riconoscersi e da cui essere riconosciuto. Ognuno di questi “insiemi” identitari, ha linguaggi e riti propri riconoscibili e praticati. Quando si parla di identità di un popolo,quindi, perché non accettare che il primo segno (a proposito di Sinnos) di riconoscimento possa essere la lingua? Se esistono così tante varietà di lingue, possiamo dedurre che ogni popolo ha elaborato il proprio strumento comunicativo in relazione all’ambiente in cui si è insediato, è vissuto e si è sviluppato. La lingua, quindi, come prodotto culturale specifico e connotativo di un popolo.
Se quanto detto finora è accettabile, non si può non ammettere che qualsiasi battaglia si conduca contro la lingua di un popolo, diventa battaglia contro quel popolo. Parlare di identità del popolo sardo senza parlare della lingua sarda ha senso solo se si vuole negare l’esistenza di una identità di popolo. Insomma, il popolo sardo, esiste o non esiste e, se esiste, esiste anche la sua lingua.
Di non secondaria importanza è anche l’ambiente in cui cresce una persona: esso influisce sul suo fisico e sul suo immaginario; il modo di camminare e di gesticolare di un uomo di montagna è diverso da quello di uno di pianura; il concetto stesso di montagna è diverso per una persona nata e cresciuta in Tibet rispetto a chi è nato e cresciuto in un deserto africano. Ognuno di noi è un prodotto culturale e la nostra attuale identità è il risultato di una evoluzione determinata, in massima parte, dal rapporto dei nostri antenati con il territorio di insediamento e con gli scambi con altri popoli. Ognuno di noi, con il proprio agire nel tempo, è anche attore di una identità che si evolve.
Perché, allora, tanti distinguo sulla lingua e sulle varianti linguistiche dei sardi? Perché non accettare che le evoluzioni avvengono anche per salti e che, nelle cose umane, l’uomo è il primo fattore? E poi, non è vero che la lingua sia soltanto un mezzo; essa è mezzo e fine perché utilizzandola la si arricchisce ed arricchendola si arricchisce la società che la usa.
Questa ricchezza porta alla consapevolezza di sé e del proprio territorio e quindi all’amore per gli alberi, le pietre, l’acqua. Il resto è farfaruza intellettuale.
7 Luglio 2007 alle 13:34
Da quando leggo di cose di Sardegna ho sempre notato un’attenzione
soverchiante verso i valori immateriali come lingua, tradizioni
popolari, eccetera; poco e nulla verso beni materiali concreti, come
vecchie case e paesaggi naturali.
Chi difende la lingua fa una cosa ottima e non si fa nemici, chi
difende una spiaggia confligge con interessi diffusi e talvolta con
poteri decisamente forti.
Uun immobiliarista, di quelli che contano, di sicuro non trova da
ridire sul fatto i sardi difendono la loro cultura, mentre lui si
occupa di concrete e redditizie trasformazioni dei luoghi.
Tant’è che gli scenari dell’ identità ce li siamo giocati in mezzo
secolo. Molti luoghi non ci sono più perchè trasformati in modo
irreversibile, concessi dal fiero popolo dei nuraghi per accogliere le
mascherate di ferragosto, canti e balli sardissimi, pasta alla
bottariga di Orbetello, agnelli-porcetti di Turchia, mirto di non so
dove.
La lingua che dobbiamo conservare servirà a esprimere bene lo sdegno?
14 Luglio 2007 alle 16:10
Smettetela; siete ridicoli,coi vostri costumi e balli tradizionali. Siete monotoni e stupidi.Di quale Tradizione parlate? Quella dell’ignoranza, della inabilita di parlare l’Italiano corretamente,quella di considerare stranieri quelli che abitano a 5 KM di distanza, quella di baciare il culo ai preti? E’ questa la vostra idea di salvaguardare le tradizioni?
Per fortuna voi non siete tutta la sardegna. Io sono sardo ma non uno di voi. Voglio che la sardegna cresca e crei lavoro e benessere per ridarci dignita’.
Tutto il resto sono grandi seghe mentali!!
17 Luglio 2007 alle 11:33
Arrespundu a Sante Maurizi de innoi, in partis, jai ki sa litra ki deu emu mandau a Marcu Ligas no mi dd’ant imprentada, mancai fessit crutza meda.
Primu parti
S’impinnu po sa lìngua sarda est parti de un’impinnu ladu no nau po sa Sardìnnia, ma po su Mundu e totu. Is sardas e is sardus skissiaus po sa lìngua si skìssiant po “le sabbie, gli alberi, le pietre, l’acqua” puru. In su tempus donniun@ si impìnnat in su ki dd’arresùrtat mellus. No s’agàtant impinnus de primu e de segundu calidadi.
Sa lìngua est su primu elementu de identidadi natzionali, ki si praxat o mancu, no forma sceti, ma sustàntzia puru, no “contenitore” sceti, ma “contenuto” puru. Mancu po nudda ki Antoni Gramsci iat nau ki “un popolo che si pone il problema della lingua, in realtà pone il problema della sua identità sociale ed economica”.
Sa lìngua est su primu elementu de identidadi natzionali, ki si praxat o mancu, no forma sceti, ma sustàntzia puru, no “contenitore” sceti, ma “contenuto” puru.