I limiti della politica monetaria
1 Settembre 2016Gianfranco Sabattini
Gli economisti, di solito, sono propensi ad occuparsi delle ricadute sul sistema economico di una determinata politica in termini di efficienza e di “distorsione degli incentivi, ma assai poco degli effetti in termini di aumento delle disuguaglianze distributive. Inoltre, è proprio delle banche centrali rivolgere la loro attenzione prevalentemente all’inflazione e assai poco alla crescita, all’occupazione ed alla stabilità dei mercati finanziari.
Al riguardo, Joseph Stiglit in “la Grande frattura” osserva che nell’esperienza americana uno degli effetti del “quantitative easing”, ovvero dell’aumento della quantità di moneta in circolazione, al fine di promuovere l’acquisto di titoli a lunga scadenza e per ridurre i tassi d’interesse a lungo termine, è stato quello di sostenere il mercato azionario, risoltosi in un vantaggio esclusivo per i percettori di alti redditi; mentre, l’obiettivo di migliorare il funzionamento del marcato finanziario, che avrebbe dovuto perseguire, garantendo ad esempio la concorrenza, o ripristinando l’erogazione di prestiti a favore delle piccole e medie imprese e creando un mercato dei mutui a favore dei cittadini, ha in realtà “danneggiato da una parte i ceti medio-bassi mentre dall’altra ha rimpinguato le casse delle banche”.
La politica monetaria da sola non riporta il sistema economico verso la piena occupazione; anzi c’è il rischio che contribuisca a una ripresa senza la creazione di posti di lavoro; ciò è dovuto al fatto che i bassi tassi d’interesse possono incoraggiare le imprese propense ad investire per l’introduzione nelle loro combinazioni produttive di tecnologie ad alta intensità di capitale, mentre la sostituzione di “manodopera non qualificata con le macchine non ha senso in un’epoca in cui un così gran numero di operai fatica a trovare lavoro”.
Anche altri aspetti della politica, quando non siano adeguatamente e responsabilmente valutati e correlati con adeguate misure di politica economica, possono avere effetti negativi sui percettori di bassi redditi; ciò accade, per esempio, quando i problemi della globalizzazione siano mal gestiti, provocando l’aggravamento delle disuguaglianze nei Paesi economicamente avanzati ed in quelli impegnati sulla via della crescita e dello sviluppo. Di solito, gli accordi commerciali internazionali vengono sempre presentati e sostenuti per il loro presunto apporto alla creazione di posti di lavoro; secondo Stglitz, vi sono diversi errori nella tesi secondo cui i trattati commerciali creano sempre posti di lavoro, anche se i governi di qualsiasi orientamento politico di solito sottolineano gli incrementi occupazionali che dovrebbero verificarsi a seguito di un aumento delle esportazioni.
Nella bilancia commerciale, però, sostiene Stiglitz, “è necessario che le importazioni siano più o meno pari alle esportazioni”: se le esportazioni creano posti di lavoro, le importazioni possono distruggerne; così accade per i sistemi economici avanzati, quando le esportazioni riguardano settori che impiegano tecnologie ad alta intensità di capitale, mentre le importazioni concernono settori che impiegano nei loro processi produttivi tecnologie ad alta intensità di manodopera. In questo caso, infatti, può accadere che accordi commerciali, anche equilibrati, distruggano posti di lavoro; non sempre, quindi, i trattati commerciali, come il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) o il TPP (Trans-Pacific Partnership), creano occupazione e se la fanno diminuire i loro effetti reali negativi si traducono in un aumento delle disuguaglianze.
Perché i trattati commerciali possano aumentare, se non opportunamente gestiti, le disuguaglianze è facile da evidenziare; a tal fine, basta fare riferimento all’ipotesi dell’esistenza di “mercati perfetti”, cioè a “quella sorta di mondo ideale che hanno in mente tanti sostenitori della globalizzazione”. In questo tipo di mondo, dominato da una concorrenza generalizzata che rende, dal punto di vista della teoria economica, “perfetti” i mercati, i beni capitali ed i lavoratori dovrebbero muoversi liberamente attraverso i confini dei Paesi integrati nell’economia mondiale; se ciò avvenisse, un lavoratore non qualificato nei Paesi esportatori capitalisticamente avanzati vedrebbe ridursi il proprio salario, sino a livellarsi a quello di un lavoratore di pari qualificazione professionale in uno qualsiasi dei Paesi esportatori, capitalisticamente poco avanzati; in tal modo, il livello salariale a livello internazionale nei mercati del lavoro scarsamente qualificato tenderà ad uguagliare il livello medio del salario dei Paesi poco sviluppati, con conseguente diminuzione di quello dei Paesi economicamente avanzati.
In mercati poco competitivi, come sono quelli moderni, accade che il commercio internazionale dei beni e dei servizi sostituisca di fatto, afferma Stiglitz, “la libera circolazione di manodopera e capitali”. In conseguenza di ciò, quando un Paese economicamente poco avanzato esporta beni ad alta intensità di manodopera, esso causa un aumento dell’occupazione al suo interno, ma anche una diminuzione dell’occupazione all’interno dei Paesi ad economia avanzata; i salari, conseguentemente aumentano nei Paesi economicamente deboli, mentre diminuiscono in quelli economicamente avanzati. Il governo del commercio internazionale, perciò, se lasciato al libero mercato, per un verso, esercita un impatto positivo sui salari dei Paesi che impiegano tecnologie ad alta intensità di manodopera, ma, per un altro verso, ne esercita uno di segno opposto nei Paesi avanzati; con l’aggravante che all’interno di questi ultimi aumentano anche le disuguaglianze e l’instabilità del modo di funzionare delle loro economie, destinate a pesare in momenti successivi sulla stabilità dell’intera economia internazionale.
Ironicamente, osserva Stiglitz, molti economisti sostenitori della globalizzazione, non solo propongono di non fare nulla per aiutare coloro che ne vengono danneggiati, ma sostengono anche che “i lavoratori dovrebbero accettare i tagli della tutela del lavoro e dei servizi pubblici”, se vogliono realmente continuare a lavorare all’interno di sistemi economici competitivi. Ma se la globalizzazione “fa bene” all’economia internazionale nel suo complesso, mentre i lavoratori “nel loro complesso stanno peggio”, ciò significa, secondo Stiglitz, che “tutti i vantaggi della globalizzazione – e altro ancora – vanno verso l’alto”, peggiorando il livello delle ineguaglianze interne ed internazionali.
In molti casi, come ad esempio in Italia, colpita dagli effetti della recente grande recessione, la politica e le autorità monetarie non hanno saputo cogliere l’occasione per incoraggiare investimenti che avrebbero potuto consentire di effettuare quelle riforme strutturali avvertite da tempo come urgenti; riforme, queste che, se realizzate, avrebbero potuto rendere meno profonde le conseguenze negative della recessione, senza penalizzare in modo eccessivo la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. In luogo di una politica monetaria attiva, è stata privilegiata la via dell’austerità e della “spending rewiew”, con il conseguente peggioramento della situazione, per via del fatto che il contenimento della spesa pubblica si è tradotto in un aggravamento delle disuguaglianze distributive, che a loro volta si sono ripercosse negativamente sulla domanda complessiva di beni e servizi, mancando in tal modo di supportare la ripresa della crescita.
In conclusione, le disuguaglianze distributive non sono un castigo di Dio; esse sono l’esito di scelte politiche parziali, a volte effettuate pur nella consapevolezza della loro dannosità nei confronti del percettori di redditi bassi; le disuguaglianze, secondo Stglitz, se sono la risultante della dinamica delle forze economiche interne al sistema economico, sono però anche il risultato del come la politica plasma queste forze e del come si intende utilizzare la politica monetaria, quella fiscale e la spesa pubblica. Ciò significa, quindi, che esistono combinazioni di politiche specifiche che, se attuate, permetterebbero di assicurare al sistema sociale una rilancio stabile della crescita ed una equità distributive condivisa