L’inadeguatezza delle risposte dello Stato sociale di fronte ai nuovi scenari economici e produttivi

1 Novembre 2018

Station. Foto Roberto Pili

[Gianfranco Sabattini]

Spesso, nei manuali di economia, il welfare State o Stato sociale viene definito una struttura istituzionale volta ad assicurare un minimo di benessere ai propri cittadini. Si tratta di una definizione che, nella nuova edizione del loro libro “Che cos’è il welfare State”, Yuri Kazepov e Domenico Carbone (docente di Politiche sociali comparate all’Università di Vienna, il primo; di Metodologia delle scienze sociali all’Università del Piemonte Orientale, il secondo) valutano molto riduttiva, in quanto non rende conto della complessità dello scopo e delle modalità di funzionamento della struttura.

La drastica semplificazione della definizione del welfare State, secondo gli autori, impedisce di cogliere l’evoluzione che esso ha subito nel tempo. Per rimediare a questo deficit definitorio, Kazepov e Carbone, ritengono sia necessario collocare l’analisi del welfare in una “prospettiva temporale di lungo periodo”, per collegare lo scopo del sistema di sicurezza al contesto sociale nel quale esso è stato istituzionalizzato, considerandone l’evoluzione delle sue caratteristiche.. La semplificazione della definizione del welfare State, infatti, non consente di rilevare che le finalità dello Stato sociale sono cambiate, in modo diverso a seconda della diversità delle ideologie che si sono affermate all’interno dei singoli contesti a supporto del welfare.

Non è un caso, osservano Kazepov e Carbone, che, a causa della semplificazione con cui il welfare State è stato originariamente definito, la sua considerazione, da parte di molti analisti, sia stata prevalentemente orientata a metterlo in relazione con aspetti del funzionamento dei sistemi economici, che non avevano niente a che fate con le sue reali finalità. E’ stato solo negli anni Ottanta del secolo scorso, che il welfare State è divenuto oggetto di studio autonomo, in funzione della dinamica dei moderni sistemi economici industrializzati e della natura dei cambiamenti che in questi si sono verificati.

L’ideologia del welfare ha iniziato ad essere condivisa tra le due guerre e a tradursi in strutture pubbliche operative nei Paesi ad economia di mercato, a partire soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale; è stato infatti all’interno di questi Paesi che l’ideologia del welfare si è affermata, legittimando sul piano sociale la necessità che l’intervento dello Stato nell’economia diventasse “un elemento costitutivo importante del benessere del cittadino”.

Il processo attraverso il quale l’intervento dello Stato ha assunto tale ruolo – affermano gli autori – “è fortemente intrecciato con le profonde trasformazioni economiche delle modalità di produzione del benessere e delle condizioni di vita delle persone, nonché con le trasformazioni politiche che hanno influenzato la partecipazione dei cittadini alla sfera pubblica”. Questo processo, avviatosi nel corso del Settecento, e irrobustitosi con la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese, ha dato luogo alla nascita delle economie nazionali e della democrazia politica, raggiungendo, nel periodo precedente e successivo al secondo conflitto mondiale, “il punto di svolta fondamentale”.

Con le trasformazioni economiche, sociali e politiche delle quali si è detto, si sono realizzate le condizioni perché si radicasse il consenso sociale su un intervento dello Stato nell’economia, per l’attuazione di politiche attive dirette a rimuovere, o quantomeno ad affievolire, i disagi causati dalle trasformazioni dei decenni precedenti. La natura di tali trasformazioni e la ricerca del necessario consenso sociale sulle politiche volte a rimuovere i disagi che ne erano derivati sono all’origine della complessità del sistema dello Stato sociale; realizzato originariamente in Gran Bretagna, esso si è esteso rapidamente, secondo modalità differenti, nei primi trent’anni successivi alla fine del conflitto mondiale, a gran parte dei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi politici democratici.

La matrice ideologica del welfare State, oltre che determinare forme diverse con cui esso si è consolidato all’interno dei vari Paesi, si è anche arricchita nel tempo di nuovi contenuti, soprattutto quando lo scopo del sistema di sicurezza sociale è stato fortemente influenzato dall’accoglimento del “principio universalistico”, che ha determinato un salto di qualità nella natura delle sue prestazioni.

Il salto di qualità ha avuto l’effetto di promuovere l’espansione dei diritti dei cittadini e, conseguentemente, della spesa pubblica, promuovendo “un processo di sviluppo economico senza precedenti”, che ha consentito di disporre delle risorse necessarie a finanziare l’espansione dei diritti. Il doppio movimento espansivo (dei diritti sociali e della spesa pubblica, da un lato, e delle risorse necessarie a finanziare quest’ultima, dall’altro lato) si è riflesso nella formulazione di più rispondenti definizioni del welfare State; per un verso, tutte tendenti a presupporre, come “causa” della sua l’affermazione, la tutela della società di mercato e la “produzione di condizioni di insicurezza e vulnerabilità implicite nel suo funzionamento”; per un altro verso, tutte assumenti “che lo scopo del potere organizzato dello Stato “fosse quello di garantire un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato che i servizi della forza lavoro di un singolo poteva avere.

Le nuove definizioni stabilivano, quindi, l’esistenza di un “nesso causale”, che l’impetuoso processo di crescita e sviluppo verificatosi nel dopoguerra aveva concorso a fare nascere tra “l’affermazione della società di mercato”, la “produzione di insicurezza” che essa comportava e le conseguenti “politiche sociali” riparatorie da attuare a vantaggio di tutti.

Nella realtà, però, le politiche sociali realizzte non sono state sempre così universalistiche, come invece avrebbero dovuto essere, per cui i sistemi di welfare, pur consolidandosi, si sono evoluti sino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso lungo tre direzioni: una direzione previdenziale, caratterizzata da prestazioni sociali a favore di beneficiari che si fossero trovati in particolari condizioni (occupazionali, di età, di genere, familiari, ecc.); una direzione assistenziale, caratterizzata da prestazioni sociali destinate a contrastare la povertà; infine, una direzione ugualitaria, che impegnava i sistemi di sicurezza sociale ad indirizzare le prestazioni verso il perseguimento della realizzazione di una “società più uguale”.

Nell’insieme, le definizioni del welfare (evolutesi lungo le tre “direzioni” indicate e divenute più rispondenti alla nuova situazione economica, sociale e politica maturata nel corso dei trent’anni successivi al 1945), pur indicando in modo specifico le finalità dello Stato sociale, hanno mancato, secondo Kazepov e Carbone, di prescrivere le modalità con cui esso (lo Stato sociale) poteva garantire e organizzare l’offerta delle prestazioni; la mancata indicazione di queste modalità è, per i due autori, all’origine del motivo per cui i sistemi di protezione sociale hanno assunto caratteristiche organizzative differenti nei vari Paesi, riflettendo i diversi valori prevalentemente condivisi nei singoli contesti.

Questo processo, culminato nella metà degli anni Settanta nell’allargamento degli scopi e nel potenziamento del welfare State – affermano Kazepov e Carbone – ha portato a scegliere all’interno dei vari Paesi l’attuazione di “certe politiche sociali piuttosto che altre”, indirizzando diversamente “i flussi redistributivi delle ingenti somme che lo Stato ha mobilitato nel periodo postbellico”. Ma, dopo il periodo del suo massimo sviluppo, i mutamenti socio-economici e le crisi strutturali dei Paesi ad economia di mercato hanno portato ad una riflessione critica riguardo agli scopi e alle modalità di finanziamento del welfare State. Assumendo una valenza prevalentemente ideologica, l’analisi critica è stata condotta secondo due prospettive diverse: quella neomarxista e quella neoliberista, cui va ricondotta anche la visione social-riformista.

La prima prospettiva critica ha fatto costante riferimento alla concezione marxiana dello Stato, secondo la quale, la sua azione condotta all’interno di una società di mercato, riproducendo le relazioni sociali proprie del capitalismo, non ha potuto incidere sulla rimozione (o sull’affievolimento) dei disagi sociali causati dagli esiti negativi della dinamica economica. Secondo la critica neomarxista, perciò, la crisi del welfare State è da ricondursi al fatto che il suo scopo è stato quello di assicurare la continuità nella stabilità del “processo produttivo e accumulativo del capitale”, attraverso la gestione delle crisi economico-sociali cui è sempre stato naturalmente esposto il capitalismo, a scapito di alcune classi e ad esclusivo vantaggio di altre.

L’instabilità dei mercati monetari e delle materie prime (in particolare delle risorse energetiche) ha comportato la riproposizione di antiche ideologie economiche e politiche conservatrici che, imputando al welfare State una radicalizzazione del conflitto sociale, hanno individuato nell’instabilità del mercato causata dall’approfondimento del conflitto sociale e nel crescente livello della spesa pubblica le cause della crisi dello Stato sociale. In base a questo approccio critico, a seguito delle insufficienze presentate dal welfare State a fronte degli effetti negativi dovuti all’instabilità dei mercati monetari e delle materie prime, a metà degli anni Settanta, la soluzione proposta, poi prevalsa, è consistita nella riduzione delle prestazioni sociali (considerate un disincentivo al lavoro) e del carico fiscale necessario per finanziare le politiche sociali.

Anche la critica social-riformista, rinvenendo il motivo della crisi del welfare State nella sua inadeguatezza nel fronteggiare l’instabilità dei mercati monetari e delle materie prime, non ha saputo che suggerire il ricorso a provvedimenti tampone, fondati sul continuo potenziamento del welfare State realizzato, che hanno avuto lo scopo, non di riproporre in termini innovativi le finalità dello Stato sociale e le modalità del suo funzionamento, ma solo quello di consentire alle economie di mercato in crisi di “guadagnare tempo”, rinviando così il momento in cui sarà giocoforza un “cambio di registro” circa il ruolo e la funzione che il welfare State dovrà svolgere per la salvaguardia dell’economia di mercato e la tutela del benessere dei cittadini, affrancata dall’instabilità economica, sociale e politica, trascinata fisiologicamente con sé dalla dinamica del moderni sistemi produttivi.

Nonostante le differenze che dividono le diverse prospettive critiche illustrate, è possibile rinvenire in esse, secondo Kazepov e Carbone, alcuni punti di convergenza: tutte concordano sul fatto che il welfare State, così come oggi risulta strutturato e “rabberciato”, non può più essere considerato la risposta ai problemi economici, sociali e politici delle economie di mercato; nessuna afferma la necessità di “smantellare” ab imis il welfare State, in quanto viene riconosciuto (sia pure per ragioni tra loro non omogenee) che le economie di mercato contemporanee non possono farne a meno; nessuna delle prospettive critiche dispone di “una strategia realistica per la realizzazione di quella che, secondo ognuna delle prospettive critiche, potrebbe essere la forme organizzativa più conveniente del welfare State, a fronte dei problemi economici, sociali e politici indotti dalla dinamica dei moderni sistemi produttivi.

Gli elementi di convergenza delle diverse prospettive critiche, a parere di Kazepov e Carbone, “sottolineano il fatto che il welfare State, così come si è storicamente strutturato e istituzionalizzato, ha raggiunto dei limiti”, che sono l’esito della dinamica, sia dell’economia, che delle modalità di intervento dello Stato per rimuoverne le disfunzioni; nell’ambito dei cambiamenti (dell’economia e delle modalità di intervento dello Stato), l’”inerzia istituzionale” del welfare State sta offrendo ora “risposte vecchie a sfide nuove”.

Concludendo il loro discorso sui limiti del welfare State e sulla necessità di una sua riorganizzazione idonea a dare risposte alle sfide economiche, sociali e politiche nuove, Kapezov e Carbone osservano che la riorganizzazione dovrebbe avvenire tenendo conto del ruolo politico-istituzionale che ha assunto l’intervento (regolatore dell’economia) dello Stato sociale moderno; ruolo, questo, che dovrebbe essere svolto attraverso un welfare State diretto a garantire, sotto forma di prevenzione, di assistenza e di modernizzazione della società, la soddisfazione di specifici diritti sociali, cui devono corrispondere specifici doveri di contribuzione finanziaria.

La conclusione del discorso degli autori sulla riorganizzazione del welfare State non appare innovativa, in quanto manca di tenere nel debito conto il fatto che la dinamica dei sistemi produttivi contemporanei, sotto la diretta influenza della globalizzazione, ha originato il fenomeno della disoccupazione crescente irreversibile; ciò rende del tutto inefficaci ipotesi di riforma del welfare State concepito come braccio operativo di un sistema di sicurezza social garante della soddisfazione di specifici diritti sociali, a fronte di altrettanti specifici doveri di contribuzione finanziaria. Ma, se il connotato principale dei attuali sistemi produttivi ad economia di mercato è quello di causare crescenti livelli di disoccupazione irreversibile, quale capacità può avere la forza lavoro di contribuire alla copertura finanziaria della spesa pubblica con cui dovrebbero essere soddisfatti i suoi loro diritti sociali?

La risposta ineludibile a questo interrogativo può essere data solo riflettendo su come riformare le modalità di distribuzione del prodotto sociale, in modo da svincolare la parte di essoche svincoli la parte di esso corrisposta alla forza lavoro disoccupata da ogni sua possibile contribuzione produttiva. E’ questo un problema sul quale da tempo si dibatte, senza pervenire, però, a conclusioni valide sul piano operativo, preferendo continuare a “rabberciare” il vecchio arnese del welafre State, ormai ridotto a strumento utile solo a consentire all’establishment economico e politico prevalente di “guadagnare tempo”, prima che i rattoppi del welfare State cessino la loro effimera efficacia.

 

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