Lingua e identità
16 Ottobre 2010Alfonso Stiglitz
Sfogliando il bel “Dizionario gramsciano 1926-1937” (a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, Roma, Carocci, 2009) alla voce “Lingua” ritrovo la definizione, data da Gramsci nei Quaderni, della lingua come “concezione del mondo integrale, e non solo un vestito che faccia indifferentemente da forma ad ogni contenuto”; ma è soprattutto in riferimento al dibattito politico in corso in Consiglio regionale che il richiamo a Gramsci può essere da guida quando afferma che porre il problema della lingua significa in sostanza porre il problema della “formazione e allargamento della classe dirigente”; ciò significa porre la questione della lingua come uno degli elementi centrali del dibattito, visto che nell’isola siamo alla disperata ricerca di classi dirigenti.
Nelle mozioni presentate in Consiglio una sola, quella a firma di Claudia Zuncheddu e altri, ha posto concretamente questo tema, depositando la mozione in italiano e in sardo, quindi con un’applicazione concreta e non con una mera posizione di principio. L’auspicio è che diventi la prassi per tutti, con uno sforzo in più di depositarle anche in gallurese, sassarese, catalano e tabarchino e per quanto riguarda il sardo, trattandosi di atti amministrativi sarebbe, per me, auspicabile l’uso della Limba Sarda Comuna.
Questa rilettura di Gramsci ha coinciso con il dibattito interessante, anche se talvolta surreale, avvenuto in occasione dell’assegnazione del premio Campiello al libro di Michela Murgia Accabadora.
Una surreale affermazione, il libro di Michela Murgia non è letteratura sarda, ha riportato a galla un dibattito molto interessante che si sta svolgendo a ondate, con differente successo ma anche molta indifferenza, nella rete, blog, forum e Facebook (cito per tutti l’ottimo intervento di Omar Onnis e dibattito conseguente svoltosi su Corona de Logu: http://www.coronadelogu.com/2010/04/19/la-letteratura-sarda-come-letteratura-nazionale/), ma che sembrerebbe collaterale o indifferente al dibatto politico, quasi che la cultura (e la lingua, la letteratura) non siano degni argomenti del dibattere politico. In fin dei conti Tremonti pare abbia affermato, con limpida chiarezza, che la cultura non dà da mangiare.
In alcune parti del dibattito, l’aspetto duro da digerire per qualcuno, in un percorso che vogliamo definire identitario, è che l’italiano, a prescindere dal fatto della sua imposizione come lingua ufficiale e quindi dall’alfabetizzazione forzata, è oggi una nostra, dei sardi, lingua madre; in molti casi, ahimè, unica e in ancora molti, fortunatamente, affiancata al sardo, al gallurese, al sassarese, al tabarchino, al catalano, a tutte le lingue e varietà della nostra isola.
Non credo al motto “un popolo una lingua”, ammesso che in altre realtà sia effettivamente certificabile, nella nostra isola è privo di senso. A meno che non vogliamo concludere che Sardi siano i soli parlanti il Sardo, escludendo i parlanti le altre lingue e varietà: italiano, gallurese, catalano, tabarchino, sasarese. Creare una distinzione muraria tra lingua “nostra” (sardo) e lingua “altra” (italiano), finisce per amputarci di una parte importante della nostra identità.
Maria Giacobbe faceva notare, come giustamente ha ricordato Michela Murgia (http://www.irsonline.net/forum/viewtopic.php?f=1&t=4139), che la letteratura sarda è sempre stata plurilingue, sin dalle origini. E ancora, prima di lei, lo faceva Michelangelo Pira; interessante, ad esempio, l’analisi eccelsa che fece della poesia di Antioco Casula di Desulo, Montanaru, il quale “tentò in definitiva l’integrazione possibile con la lingua italiana all’interno della lingua sarda” proprio perché “sentì il sardo come volgare vivo, arricchendolo degli apporti nuovi che gli venivano dalla lingua italiana, verificandolo nel parlare quotidiano, non ancora logorato o imbalsamato dall’uso scritto”; per concludere che “con Montanaru il sardo fu ancora una volta lingua”, a differenza che con gli autori fermi all’arcaicità della lingua o all’italiano dialettizzato. In fin dei conti Michela Murgia è in buona compagnia, anche a Montanaru fu rimproverato il rapporto con l’italiano.
Il rapporto tra sardo e italiano è, in sostanza, oggi, un rapporto tra lingue nostre e il nostro esprimerci ha senso solo se agiamo liberamente nell’uso dell’uno o dell’altro codice o di entrambi e se tra tutti i nostri codici avviene la contaminazione che è vitale per le lingue. D’altra parte, l’italiano è oggi l’unica lingua che unisce tutta l’isola, dai sardoparlanti ai tabarchini e oltre. Alla fin fine usare molte lingue non ha mai fatto male a nessuno e, a differenza di altri settori, qui non vale la “modica quantità” alla quale certi censori sembrano volerci inchiodare. Come i nostri antichi dicevano, saggiamente: meda limbazzos, sapientia. Le citazioni di Michelangelo Pira vengono ovviamente dallo splendido libro “Sardegna tra due lingue”, che (ri)leggo nella seconda edizione del 1984, Edizioni della Torre.
Mi colpisce che nel dibattito in corso rare siano le letture di questo autore, sul quale meriterà di tornare e per molti aspetti.
12 Novembre 2010 alle 10:03
Forse l’avevo già letto ma ora rileggendo vedo quanta attenzione e sapienza riversi sulle possibilità di possedere molte lingue.