L’intifada dei giovani palestinesi di Dheisheh
16 Giugno 2016Omar Suboh
Sabato 11 Giugno, presso la sede dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina, si è svolto un incontro con due giovani ragazzi provenienti dal campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme.
Dheisheh è uno dei tanti campi profughi nati come conseguenza della nakba del ’48, conta al suo interno più di 16 mila abitanti, con una superficie che si aggira intorno al mezzo kilometro. I campi profughi sono e rappresentano il centro della ribellione palestinese, come ci ricorda Saeed. Sino ad oggi gli accordi di pace non hanno mai preso in considerazione i campi profughi, e in quei luoghi mancano gli elementi più essenziali per la sopravvivenza. Saeed, 21 anni, è già stato arrestato 3 volte.
Mustafa, fratello di Saeed, ha solo 16 anni. Ha perso la sensibilità dal ginocchio in su, la causa: gli hanno sparato dietro il ginocchio perché tirava pietre contro i soldati. È stato operato a gennaio a Milano nel tentativo di ricostruire il nervo che è andato compromesso. Ora sta frequentando alcune sedute di fisioterapia, per recuperare sensibilità nella gamba. Colpisce da subito il dramma personale, la perdita della scuola e la lontananza da casa e dai propri famigliari.
Veniamo alla storia di Saeed. La prima volta venne arrestato per detenzione amministrativa, era solo minorenne (come tanti dei giovani palestinesi, dal 1967 ad oggi infatti, sono circa 850 mila in tutto le persone arrestate dai soldati, di cui 15 mila donne e migliaia di bambini; di questi vengono arrestati circa 700 ogni anno, e possono arrivare ad avere anche meno di 12 anni). Saeed studia sociologia presso l’Università di Betlemme. Racconta della vita nel campo profughi: stradine strette, assistenza sanitaria limitata, scuole affollate: sono gli effetti dell’occupazione.
Dal punto di vista economico la condizione non è migliore: i ragazzi sono dissociati dal resto, non hanno prospettive per modificare le loro condizioni di vita. Chi cerca di avere un futuro diverso ha difficoltà soltanto ad immaginarselo. Saeed racconta che nonostante tutto, alcuni sono riusciti a innalzarsi dalla propria condizione, tra studiosi e combattenti, qualcuno pure dirigente, i campi profughi rappresentano una fucina per forgiare la propria esistenza.
Viene spontaneo chiedersi quale sia il ruolo della Comunità internazionale all’interno dei campi. Saeed spiega che istituzioni come quelle dell’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi) hanno ridotto gradualmente i loro interventi, se precedentemente riuscivano a coprire parzialmente con la loro assistenza alcune situazioni gravi, oggi il loro servizio si riduce al minimo indispensabile, ad esempio nel campo sanitario.
Saeed racconta della sua esperienza nelle carceri israeliane. Era il 2011, aveva 16 anni. Notte tardi, i soldati fanno irruzione buttando giù le porte e prelevandolo dal suo letto mentre dormiva. Prelevato da casa con le manette e trascinato lungo il tragitto, riempito di calci e pugni fino alla camionetta dei soldati. Rinchiuso in una cella per più di 4 ore al freddo e ricoperto di insulti. 9 ore di interrogatorio, senza alcuna accusa reale. Sconterà 5 mesi di carcere grazie all’intervento del suo avvocato.
La seconda volta fu più atroce e violenta. Sono passati solamente 5 mesi dopo il rilascio, Saeed ha 17 anni. Le modalità dell’arresto sono le stesse della prima volta, ma in questa occasione viene condotto presso un noto centro di interrogazione chiamato dai palestinesi l’”inferno di Gerusalemme” (questo centro prese il posto di un antica chiesa).
Saeed trascorse 56 giorni in isolamento forzato senza vedere nessuno, con poco o nulla da mangiare (addirittura gli venne impedito di fumare, pratica generalmente consentita dalla pietas dei soldati). Ogni giorno subì interrogatori della durata di 18 ore ciascuno: legato mani e piedi con un lucchetto che gli impediva ogni movimento. I soldati cercarono di ottenere da lui qualche confessione, applicando ogni genere di tortura: da quella psicologica a quella fisica.
Le condizioni della cella erano fatiscenti, la temperatura veniva regolata dai soldati stessi, che a piacimento sceglievano se aumentarla ai livelli dell’insopportabilità o abbassarla a limiti inaccettabili. Nei giorni seguenti, Saeed ricevette nella sua cella, un foglio redatto dai soldati e da inviare presso il Comando militare di Gerusalemme per la richiesta di un interrogatorio della durata di 72 ore consecutive. Così avvenne.
Di fronte a 4 poliziotti, Saeed fu costretto a subire le torture fisiche della polizia israeliana condite da insulti e minacce di vario tipo. Lo scopo di estorcere confessioni ai sequestrati è pratica comune, il fine è quello di procedere all’arresto in questo modo di altre persone. In genere le confessioni vengono scritte in ebraico, lingua che la maggior parte dei palestinesi non conosce o non sa leggere, i sequestrati in questo modo vengono obbligati a firmare una confessione senza conoscerne il contenuto.
Le difficoltà sembravano interminabili. Venne rinchiuso in una cella con personalità della sicurezza israeliana infiltrate che simulavano di essere militanti della resistenza palestinese. L’obbiettivo: costringerlo a confessare, ad ammettere le sue responsabilità, per renderlo un eroe e per essere accettato all’interno della comunità in carcere.
Saeed nonostante le pressioni riuscì a non cadere nel tranello. Per convincerlo a confessare i soldati e la polizia arrivarono a fargli credere che il padre fosse stato arrestato. Solo in seguito scoprirà, da un amico dei campi profughi, delle effettive pressioni subite dal padre per ottenere una prova che inchiodasse il figlio.
Per il secondo arresto, Saeed trascorse 20 mesi in carcere. Non si dette per vinto, trascorse il tempo studiano, leggendo e formandosi. Vide dei bambini portati in carcere, sotto i 14 anni. Dall’ultima intifada, racconta che 5 dei suoi amici sono stati uccisi. Il fratello Mustafa, venne condotto e tenuto sotto il sole per più di 8 ore consecutive.
La pratica è sempre la stessa: la detenzione amministrativa. Dal 1967 a oggi sono decine di migliaia i palestinesi incarcerati senza alcun capo d’accusa e senza processo. Le prove possono essere manipolate dai servizi di sicurezza israeliani senza che gli avvocati e gli accusato possano visionarle. È il sistema legale di apartheid.
Tutto questo avrebbe dovuto scoraggiare i due ragazzi, così come tutti gli altri abitanti del campo. Per Saeed le cose invece non stanno così. La condizione e il dramma dei palestinesi ha rafforzato il loro spirito e la loro volontà, sono pronti a combattere. Combattere per un ideale di libertà ancora possibile. Saeed afferma: «continueremo a lottare per la libertà della nostra Terra». Noi siamo con lui.