L’isola degli inganni
16 Marzo 2013‘In questo articolo Mario Cubeddu esprime alcune considerazioni sugli scritti di Sergio Frau: si tratta di giudizi che si allontanano da ciò che il manifesto sardo ha sempre sostenuto nel corso di questi anni. Riteniamo che l’intervento di Mario non offra novità rispetto al passato per cui ribadiamo il giudizio espresso precedentemente’ (red).
Mario Cubeddu
C’è un’isola in mezzo al mare, dove quasi nessuno è contento di come appare, di come, probabilmente, è in realtà. Ogni altro mestiere è migliore di quello che fa. Specialmente se ti rende famoso, se hai qualche possibilità che gli altri si accorgano di te, ti considerino, ti amino. Così impiegati, insegnanti, pensionati, fanno i presentatori in televisione, i poeti, i pittori, gli scrittori. E’ un’isola in cui si crede alle favole: che il programma del centro-destra non fosse quello di smantellare le leggi di tutela del territorio, in primo luogo delle coste, ma la creazione di centomila nuovi posti di lavoro e la fine dei problemi dell’industria nel Sulcis. O anche alla favola che l’opposizione avrebbe condotto una lotta serrata contro la giunta al potere per difendere l’occupazione, impedire l’inquinamento di suolo, acque, cielo, risanare i luoghi contaminati ed eliminare le servitù militari, invece di tirare a campare in attesa, ogni mese, del lauto stipendio, attenta a tenersi buoni i portatori di voti.
L’isola è ridotta talmente male da essere usata anche come ottimo deposito delle fole e delle invenzioni altrui: un Cristoforo Colombo sputtanato dalla negazione della “scoperta” dell’America da parte degli eredi delle popolazioni azteche e inca, che tutto desideravano fuorchè essere scoperte da avidi avventurieri europei, può benissimo essere nato in Sardegna, come sostiene una “studiosa” spagnola. Perché no? La Regione sarda finanzia la “ricostruzione” di maschere carnevalesche, inventate dalla scarsa fantasia di un mediocre versificatore novecentesco, mascherato a sua volta da gesuita lussurioso. In un’isola che ha conosciuto un feudalesimo diffuso solo a partire dal XIV secolo avrebbero cavalcato più cavalieri Templari che in Francia.
Continua una tradizione dell’inganno risalente almeno alle Carte di Arborea. E’ certamente opportuno interrogarsi sul fascino irresistibile che esercita sui sardi la ricostruzione di un passato eroico e glorioso, opposto alle miserie del presente. In molti hanno provato a darne una spiegazione, dai partecipanti al convegno sulle falsificazioni ottocentesche, organizzato da Guido Tendas e Luciano Marrocu a Oristano nel 1996, al giovane studioso Fabrizio Frongia, di cui il Maestrale ha pubblicato nel 2012 Le torri di Atlantide. Quest’opera importante privilegia il filone dell’abuso dell’archeologia, usata per regalare ai sardi l’immagine di una civiltà nuragica ricca, civile, guerriera, capace di un ruolo non subalterno, ma attivo e creativo, sulla scena di un antico Mediterraneo.
Obiettivi polemici principali sono: la “costante resistenziale sarda” di Giovanni Lilliu, l’identificazione delle popolazioni sarde del secondo millennio a.C. con gli Shardana (accettata, o non rifiutata, a quanto pare, da archeologi e storici di valore) e la fortuna che ha arriso in Sardegna all’opera del giornalista de La Repubblica Sergio Frau, capace di vendere decine di migliaia di copie di un saggio non facile. Frau riprende la tesi che identifica la Sardegna con l’Atlantide, l’isola raccontata, forse anche inventata, da Platone. Tesi non nuova, sostenuta subito dopo la Grande Guerra anche da Egidio Pilia, uno dei fondatori del Partito Sardo d’Azione.
Sergio Frau, folgorato dall’idea che le mitiche colonne d’Ercole siano da collocare tra la Tunisia e la Sicilia, arriva alla conclusione che la Sardegna fosse per i Greci la terra capace di fornire lo spunto per tutte le mitologie collegate all’estremo occidente, dalla terra dei Feaci dell’Odissea, all’Atlantide platonica. Lanciatosi in un tentativo di verifica di questa sua intuizione, egli diceva di essersi scontrato con un mondo dell’archeologia sarda che trascurava tanto i musei (decisi e ripetuti gli attacchi ai criteri espositivi adottati per il Museo archeologico di Cagliari) così come ometteva di continuare e approfondire lo studio della civiltà nuragica. Poche decine di monumenti esplorati, sulle migliaia esistenti. La sua polemica aveva un concreto bersaglio nel sovrintendente ai beni archeologici di quegli anni, Vincenzo Santoni.
L’attività pubblicistica del giornalista di Repubblica, articoli e libri, suscitava un grande interesse nell’opinione pubblica sarda. La sua opera veniva incontro, evidentemente, a un desiderio di maggiore conoscenza, di un’attività di divulgazione più significativa da parte degli studiosi. Questo non significa necessariamente che tutto quello che diceva fosse condiviso. Né che sia necessario supporre che chi ha comprato “Le colonne d’Ercole” sognasse una Sardegna indipendente. Questa è stata l’impressione invece degli studiosi sardi di archeologia e di altri intellettuali sardi. Di fronte al successo del libro, vissuto in parte, con una reazione molto sarda e allo stesso tempo abbastanza corporativa, come l’invasione di uno straniero, ci si è preoccupati di stilare un documento in cui tra le altre cose si mettevano in guardia i lettori dalle pericolose suggestioni ideologiche che l’esaltazione di un mitico passato sardo poteva alimentare.
Il libro di Frongia è per certi versi figlio di quel documento. Ben documentato e ben scritto, ha forse l’unico difetto di sottovalutare le implicazioni politiche e ideologiche della ricerca archeologica in qualsiasi caso, non solo per quanto riguarda i sardi. Antonio Taramelli scriveva su un quotidiano, negli anni in cui il nascente Partito Sardo d’Azione veniva accusato di separatismo, che dal profondo delle viscere di tanti nuraghi, da lui esplorati e scavati, sentiva levarsi all’improvviso nel silenzio il grido: ITALIA!
Non avrebbe fatto quel lavoro se non avesse potuto includere la civiltà dei nuraghi nell’ambito della civiltà italiana? Le favole italiane che ordivano la nostra educazione nella scuola dell’obbligo (maramaldi e pietrimicca), privandoci di lingua e storia, non sono oggetto di dileggio, ma di nostalgico rimpianto. L’archeologia, come la storia letteraria d’altronde, si lega strettamente alla nascita delle nazioni e ai miti che l’accompagnano. Se per molti parlare di nazione sarda è una bestemmia, mentre la nazione italiana è sacra e intoccabile, questo non ha niente a che fare con la scienza. Nel frattempo è sottovalutato, quando non taciuto, l’influsso sull’immaginario sardo della narrazione delle origini, “scientifica” a quanto pare, introdotta da Luca Cavalli Sforza e dalle sue ricerche (Luigi Luca Cavalli Sforza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, 2003): i sardi sarebbero una foglia distinta, forse anche solo un ben individuato buco in una foglia, nel grande albero della storia dell’umanità.
Concludiamo con qualche considerazione, a margine della vicenda e legata all’attualità. L’opera di Sergio Frau ha avuto almeno il merito di far guardare in modo diverso le statue di Monti Prama, per molti anni abbandonate nei magazzini. Il suo grande avversario, l’ex sovrintendente Santoni, è oggi sotto processo per gli abusi collegati alla speculazione edilizia sul colle di Tuvixeddu. Il giornalista sardo-romano ha cercato nel sostegno della politica regionale il puntello che gli veniva a mancare anche da parte di uomini di cultura che inizialmente erano stati incuriositi dalle sue tesi. Basta ricordare il numero 204 di Diogène in cui nomi del prestigio di Vittorio Castellani, Luciano Canfora, Andrea Carandini e Jean Bingen discutevano le sue idee senza pregiudizi. Anche se non concordavano con le sue tesi, essi trovavano l’opera “curiosa e interessante”. Può meravigliare che abbia interessato e incuriosito allo stesso modo i sardi?
E’ quasi certo che Atlantide continuerà a suscitare fantasie in chi ancora e sempre leggerà le pagine di Platone. Per i sardi sarà un’altra favola da raccontarsi, forse meno dannosa e più innocua di tante altre che producono conseguenze ben più gravi.