L’Italia ha veramente bisogno dei migranti?

1 Ottobre 2019

Liu Bolin, Migrants

[Gianfranco Sabattini]

Malgrado la situazione economica e politica del Paese stia attraversando una fase di instabilità che non ha eguali nel periodo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, non mancano pubblicazioni che sottolineano i vantaggi che l’Italia potrebbe trarre da una razionale “gestione” dei flussi migratori, che da anni ne stanno caratterizzando la vita politica sociale ed economica.

Nicola Daniele Coniglio, docente di Politica economica presso l’Università di Bari, ha di recente pubblicato il volume “Aiutateci a casa nostra. Perché l’Italia ha bisogno degli immigrati”. L’autore sostiene che i flussi migratori sono di per sé fenomeni che “modificano i sistemi economici di ‘partenza’ e di ‘arrivo’ in modo complesso: cambiano le disponibilità di risorse produttive, la dimensione dei mercati di consumo, le preferenze stesse dei consumatori, le risorse disponibili per finanziare servizi collettivi, l’attrattività futura dei luoghi stessi” ed altro ancora.

Di fronte ai cambiamenti provocati dai flussi migratori, è dunque naturale, come fa l’autore, chiedersi quale sia l’effetto dell’impatto della consistenza di tali “flussi” sul livello occupazionale e su quello dei salari dei Paesi di accoglienza; quindi, se è vero che l’arrivo di consistenti flussi di migranti determini un cambiamento positivo della struttura produttiva del Paese verso il quale essi si indirizzano.

E’ fuor di dubbio che i quesiti ai quali l’autore intende dare una risposta siano stati negli ultimi anni (e continuino ad esserlo) al centro di molti dibattiti e di molte analisi di esperti, anche in discipline extraeconomiche; dibattiti ed analisi che si svolgono soprattutto nei Paesi più direttamente coinvolti dal fenomeno migratorio, assumendo un significato particolare per l’Italia, Paese che, dopo essere stato terra di emigrazione dalla metà dell’Ottocento alla seconda metà del Novecento, si è trasformato dalla fine del secolo scorso in Paese di immigrazione, con un flusso immigratorio, sottolinea l’autore, “raddoppiato negli ultimi due decenni”.

Per gestire correttamente il fenomeno – continua l’autore – e cogliere le opportunità “che può offrirci e contenere i problemi che può porre, dobbiamo prima di tutto comprenderlo”. A tal fine, se si vogliono realmente capire gli effetti, positivi o negativi, dell’impatto del fenomeno sulla struttura produttiva del Paese occorre – sottolinea l’autore – che “ci si liberi di ogni ‘lente ideologica’”. D’accordo! A condizione, però, che le critiche realistiche ai presunti (e, a volte, improbabili) effetti positivi dei flussi migratori non siano considerati, come spesso accade, “frutto” di pregiudizi di natura xenofoba. Ma quali sono le risposte che l’autore offre agli interrogativi da lui stesso formulati?

Per valutare il presunto effetto della consistenza dei flussi migratori sul livello occupazionale e su quello dei salari del Paese ospitante, secondo Coniglio, occorre tenere presente “che i sistemi economici e sociali sono complessi”; ragione, questa, sufficiente a indurre chiunque si accinga a valutare gli effetti di un fenomeno articolato come quello dell’immigrazione” a considerare tali effetti dipendenti “dal contesto nel quale l’immigrazione si verifica” e, in particolare, “dal tipo di politiche migratorie che caratterizzano” il Paese ospitante, senza trascurare il fatto che tali politiche dipendono, a loro volta, “dalle condizioni di partenza del sistema economico e dalle opportunità che offre il mercato del lavoro”.

Partendo da questi presupposti, per valutare gli effetti dei flussi migratori sul livello occupazionale e su quello dei salari occorre allora stabilire quali siano i fattori che “rendono il fenomeno migratorio desiderabile per una comunità”. I flussi migratori – sostiene Coniglio – (fatta eccezione per i migranti richiedenti asilo) normalmente si indirizzano verso le aree del mondo che offrono le migliori opportunità di lavoro. In altre parole, i migranti vanno là dove è maggiore la possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro; ove riescano nell’intento, è inevitabile, come spesso si ritiene, che ciò avvenga a spese del lavoratori del Paese di destinazione. Questo modo di pensare, a parere di Coniglio, è errato, in quanto manca di considerare che un sistema economico non è un’entità statica, per cui esista un tetto invalicabile alle opportunità lavorative.

L’arrivo di nuova forza lavoro all’interno di un dato sistema economico, anche se esso si trova pro-tempore in una configurazione di equilibrio, con tutta la forza lavoro occupata, altera la situazione del mercato del lavoro e quella del sistema economico nel suo complesso. Le attività produttive, usufruendo di un miglioramento della loro competitività, realizzato attraverso una maggiore disponibilità di forza lavoro a minor costo, troveranno conveniente aumentare il livello della produzione.

Inoltre, l’immigrazione genera anche l’afflusso di altri fattori produttivi che, assieme alla maggior disponibilità di forze lavorative, attiveranno un “circolo virtuoso: l’arrivo di centinaia di migliaia di lavoratori attrae nuovi capitali e investimenti che a loro volta generano nuove opportunità di occupazione e nuovi arrivi di lavoratori e consumatori”. Ciò accade – afferma Coniglio – perché i sistemi economici sono per loro natura dinamici, e i “flussi migratori sono uno dei motori principali di questa dinamicità”.

Tra gli effetti positivi che i flussi migratori possono imprimere alla struttura del sistema economico del Paese ospitante vi sarebbe anche la “revisione delle scelte lavorative dei nativi”; cambiamento che può manifestarsi, o attraverso la rimozione dei vincoli che impediscono ai lavoratori nativi di effettuare “scelte di lavoro” non ottimali, oppure attraverso la maggior pressione competitiva originata dall’offerta di servizi lavorativi aggiuntivi da parte dei nuovi arrivati.

In questo caso, i flussi migratori, oltre a “non rubare” il posto di lavoro ai lavoratori nativi, non altererebbero il livello salariale; infatti, l’immigrazione, producendo di solito una riduzione dell’offerta di lavoro da parte dei nativi in quei segmenti del mercato del lavoro che essi preferiscono abbandonare, per trasferirsi in quelli maggiormente qualificati professionalmente, non altererebbe più di tanto il livello salariale; perciò, maggiore sarà la riduzione dell’offerta di lavoro da parte dei nativi, più contenuto sarà “l’effetto finale dell’immigrazione sui salari, in quanto l’offerta totale di lavoro […] potrebbe cambiare molto poco”.

Se così stanno le cose, perché allora è diffusa la percezione che i migranti rubino il lavoro ai nativi e, in generale, causino un abbassamento del livello salariale? La risposta, per Coniglio, è riconducibile all’esistenza di “un’asimmetria di fondo che disallinea realtà e percezione rispetto a fenomeni complessi come l’immigrazione”; asimmetria che determinerebbe che gli effetti positivi dell’immigrazione siano tanto indiretti da non essere facilmente osservabili, mentre gli effetti negativi, connessi alla aumentata competizione sul mercato del lavoro e alla momentanea riduzione del livello salariale, sono molto più facilmente percepibili.

Coniglio ritiene che, per evitare che queste false percezioni diventino “la guida di scelte collettive sulle politiche che regolano i flussi migratori”, sarebbero necessarie misure di politica economica adatte a creare le condizioni idonee, non solo ad evitare false percezioni degli effetti reali del fenomeno degli immigrati, ma anche e soprattutto a “rendere massimo l’impatto positivo dell’immigrazione” sul sistema economico, garantendo con opportune politiche ridistributive temporanee coloro che sono vittime di false percezioni sui possibili svantaggi originati dall’arrivo di nuova forza lavoro. Insomma, Coniglio, con intenti giustificatori, offre una narrazione del fenomeno migratorio fondata sull’assunto che il ruolo “innovativo” dell’incremento dell’offerta di forza lavoro (dovuto all’ingresso dei migranti nel mercato del lavoro) eserciterebbe un impatto dirompente sul sistema economico, assimilabile a quello che potrebbe essere provocato, ad esempio, da un’innovazione tecnologica. E’ plausibile una tale valutazione del fenomeno migratorio?

Considerate le condizioni in cui attualmente versa l’Italia, sembra doversi plausibilmente escludere un impatto degli immigrati del tipo di quello ipotizzato da Coniglio, soprattutto per via del fatto che, ammesso e non concesso che tale impatto sul sistema economico italiano possa realmente verificarsi, non sarebbero disponibili le risorse materiali e personali necessarie per affrontare gli effetti negativi (quali, ad esempio, quelli connessi alla disoccupazione indotta dal processo di ristrutturazione dell’economia, alla diminuzione dei consumi e alla conseguente diminuzione della produzione) che si verificherebbero durante il tempo di ristrutturazione dell’economia nazionale.

La giustificazione del fenomeno immigratorio avanzata da Coniglio è basata su un’ipotesi che, seppur brillante, riduce il suo ragionamento ad una mera esposizione accademica del ciclo dell’innovazione, formalizzato da Joseph Alois Schumpeter nella sua teoria dello sviluppo. Infatti, il modo di raccontare il possibile impatto positivo dei flussi migratori sul sistema economico ricorda il processo descritto da Schumpeter, secondo il quale, se in un dato momento, all’interno di un sistema economico in equilibrio, “compare” una maggiore disponibilità di una risorsa, questa ha l’effetto di rompere l’originaria posizione di equilibrio del sistema economico, dando origine ad una profonda ristrutturazione della base produttiva.

Durante la ristrutturazione, la disoccupazione causata dalle attività produttive che si rinnovano potrà nel tempo essere compensata dagli occupati nelle nuove attività produttive che sorgeranno, realizzando così il passaggio del sistema produttivo ad una nuova configurazione di equilibrio, in corrispondenza della quale l’occupazione complessiva (dei nativi e degli immigrati) potrà disporre (nella peggiore delle ipotesi) oltre che degli stessi livelli salariali, anche di una maggiore capacità di acquisto, per via dell’aumentata produttività acquisita dal sistema economico.

Ciò che Coniglio trascura, nella presunta asimmetria da lui ipotizzata circa la percezione degli effetti del fenomeno migratorio, è il fatto che, in Italia, gli effetti positivi che egli si attende dalla “comparsa” di una maggior disponibilità di forza lavoro non sono ipotizzabili in un periodo di crisi strutturale prolungata, con conseguenze economiche, sociali e politiche incompatibili con l’ingresso nel Paese di continui flussi migratori in un Paese come l’Italia. In assenza delle risorse necessarie e mancando la possibilità di integrare i migranti all’interno di un sistema economico condizionato dai pesanti vincoli ereditati dal passato, l’attuazione di una politica di accoglimento solo per ragioni umanitarie non può che avvenire al prezzo della comparsa di movimenti sociali, le cui forme di contestazione stanno creando una diffusa instabilità politica e pericoli di un preoccupante affievolimento delle procedure decisionali democratiche.

Ma quale potrebbe essere allora una politica alternativa a quella sinora attuata in Italia nei confronti del fenomeno migratorio? In linea di principio, sul piano strettamente razionale, tale linea politica potrebbe essere basata su un trasferimento di risorse dai Paesi economicamente sviluppati a quelli d’origine dei migranti. Nel lungo periodo potrebbe essere questa la soluzione più adatta ad annullare quasi totalmente i flussi migratori; una simile politica, però, non potrebbe essere finanziata solo dall’Italia, ma dovrebbe essere sostenuta dai Paesi più direttamente coinvolti (quali, ad esempio, quelli dell’Unione Europea) o, ancora più opportunamente, dai Paesi economicamente dotati che, in quanto aderenti all’Organizzazione delle Nazioni Unite, procedano a finanziare e ad attuare il “Global Compact for Migration”, per “aiutare a casa loro i migranti”.

Questa potrebbe essere l’opzione conveniente per porre un limite ai continui e crescenti flussi migratori. Essa implica però tempi tanto lunghi quanto quelli necessari perché si realizzino i mutamenti strutturali ipotizzati da Coniglio per integrare i migranti nei Paesi di destinazione; tempi tanto lunghi che non escludono di dover fare fronte nel breve pariodo all’eccezionalità dei flussi migratori attuali.

Ciò rende evidente che “aiutare a casa loro i migranti” (politica di lungo periodo) non esclude la necessità di gestire i “flussi” attuali (politica di breve periodo); le due politiche non dovrebbero essere considerate alternative, ma complementari, per la soluzione di un problema che sta mettendo a dura prova la capacità di tenuta della coesione sociale del Paese.

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