Lo scontro Italia-Ue in un vicolo cieco
16 Novembre 2018[Alfonso Gianni]
Come era prevedibile, alla Commissione europea la risposta del governo italiano che intende mantenere inalterati i dati riguardanti i saldi e la crescita non è piaciuta affatto. Finisce così miseramente l’improbabile tentativo di mediazione del ministro Tria, con l’incerto e inefficace sostegno del Presidente del consiglio. Vasi di coccio finiti tra vasi di ferro, quali, per ora, sono Salvini e Di Maio.
I primi a chiedere che all’Italia non si conceda nulla e che anzi bisogna aprire una procedura d’infrazione nei nostri confronti sono stati paesi come l’Austria e l’Olanda. L’internazionale nazional sovranista è una contraddizione in termini, peggio che un ossimoro. E infatti alla prima prova più che liquefarsi non si è neppure appalesata. Durissimo il ministro delle finanze di Vienna, Hartmut Loeger- membro di un governo nel quale i popolari governano con il partito dell’ultradestra guidato da Strache – con una dichiarazione che come si sa ha l’effetto di mandare in bestia i nostri governanti: “l’Italia corre il rischio di scivolare verso uno scenario greco”. Con la rilevante differenza che il peso dello Stivale è assai maggiore di quello del paese ellenico e i pericoli di contagio ancora maggiori. Infatti lo stesso ministro austriaco ha aggiunto che “non si tratta di una questione italiana, ma europea”. Avendo in questo caso del tutto ragione, ma in un senso ben diverso da quello che intende.
La “questione italiana” è europea perché il nostro paese è too big to fail and too big to be saved. Troppo grosso per lasciare che vada in fallimento, viste le conseguenze che ne deriverebbero per la Ue nel suo complesso – specie nell’incertezza della soluzione da adottare per la Brexit – e allo stesso tempo troppo grosso per essere salvato, visto il permanere di politiche rigoriste ancora saldamente al comando della Ue, malgrado che proprio a queste vada fatta risalire l’incapacità dell’Europa di uscire dalla crisi, a differenza di altri paesi, come gli Usa, dove sono state condotte, una volta viste le disastrose conseguenze del fallimento della Lehman Brothers, ben altre politiche di tipo espansivo.
Il guaio è che in questo caso non hanno torto Olivier Blanchard e Jeromin Zettelmeyer quando scrivono in un articolo per il Peterson Institute for International Economicsche che l’Italia rischia una manovra espansiva dagli effetti recessivi. Infatti oramai il contrasto non è tanto o solo sul famoso 2,4% nel rapporto deficit/Pil, quanto sulle stime di crescita che il governo italiano prevede. Se poi il medesimo pensa, come è stato affermato in chiave eventuale, di modificare la manovra in corso d’opera, tagliando ulteriormente la spesa come unica soluzione qualora l’economia rallentasse più del previsto (ovvero i livelli di crescita dichiarati non fossero raggiunti, cosa pressoché certa) saremmo di fronte ad una misura pro-ciclica, quindi l’esatto contrario di ciò che avrebbe suggerito Keynes, dietro il quale qualche nostro ministro ha cercato persino di nascondersi.
Non ci sarebbe da stupirsi, dal momento che le politiche economiche keynesiane non si fondano soltanto sulla redistribuzione – dato e non concesso che nella manovra italiana ce ne sia a sufficienza – quanto su un’efficace politica di investimenti pubblici in settori innovativi dell’economia capaci di attirare occupazione, fare crescere il Pil, cambiandone necessariamente la composizione, e il livello delle retribuzioni. Ma di tutto ciò non c’è traccia nel disegno economico del governo italiano. Pensare ad un esito felice dell’andamento dell’economia per l’anno in corso è impossibile. Anzi l’Istat ha certificato una crescita zero per il terzo trimestre e il quarto non è certo cominciato sotto buoni auspici. Arrivare all’1,5%, quando tutti gli organismi internazionali e domestici accreditano per il 2019 una crescita al massimo dell’1%, è peggio che temerario. E’ irresponsabile. Non in astratto, ma in concreto. Cioè sulla base delle premesse fornite dall’economia reale e dalle misure prospettate dal governo.
Il facente funzione di presidente dell’Istat, l’economista Maurizio Franzini, studioso eccellente del fenomeno della povertà nel nostro paese, ha dichiarato l’altro giorno nell’audizione presso la commissione competente della Camera, che il c.d. reddito di cittadinanza – ma, per i suoi pesanti condizionamenti, preferirei chiamarlo reddito di sudditanza – può al massimo produrre un aumento dello 0,3% del Pil, nel caso provochi uno shock nei consumi delle famiglie. Ma tale percentuale scenderebbe di molto se facesse la fine degli 80 euro di renziana memoria, ovvero venisse in buona parte messo a risparmio in previsione di tempi più duri. In ogni caso visto che la sua entrata in vigore non è prevista se non nel secondo trimestre del 2019 è improbabile che tale risultato venga raggiunto.
Non migliore sorte hanno le riduzioni fiscali previste – anche per “premiarle” per occupazioni temporanee – per le imprese (il taglio di 9 punti percentuali dell’aliquota Ires) poiché solo il 7% ne trarrebbe vantaggio. La stessa Bankitalia ha sottolineato che il sistema di incentivazioni alle imprese ideato da questo governo avrebbe una qualche efficacia, nel senso della convenienza per i datori di lavoro naturalmente, solo nelle fasi favorevoli del ciclo economico. Quindi saremmo di fronte anche qui a misure pro-cicliche. L’ancora di salvezza delle privatizzazioni (Conte e Tria hanno parlato di 18 miliardi) è del tutto illusoria per diversi motivi. Anche se si facessero, non inciderebbero sul deficit strutturale, che è quello di cui si sta discutendo secondo le norme del Fiscal Compact. Ma ciò che più conta è che se si vendessero i cosiddetti gioielli di stato avremmo un impoverimento ulteriore del nostro paese, o se si mettesse mano alle partecipate si toglierebbe linfa vitale alle entrate pubbliche.
Tanto le assurde norme rigoriste del Fiscal Compact e dei Trattati, quanto la politica di promesse elettorali, tesa più a soddisfare gli elettorati di riferimento dei due maggiorenti di governo che a risollevare il paese e le condizioni dei suoi abitanti, ci stanno conducendo ad uno scontro senza soluzioni positive di uscita. Un vicolo cieco, appunto.
[Dal blog di Alfonso Gianni sull’Huffington e su Jobsnews]