Lo spopolamento dei paesi
1 Aprile 2008
Mario Cubeddu
I sardi non fanno figli, i sardi invecchiano, i “popoli” sardi dei 350 villaggi sono destinati all’estinzione. Perché ogni paese della Sardegna è anche una tribù a sé stante, sin troppo orgogliosa di una sua specificità. I sardi sono destinati a sparire entro qualche secolo, a meno di una inversione di tendenza demografica. Che problema c’è, obietterà qualcuno. L’umanità continua a crescere di numero, il vuoto sarà colmato da chi arriva: dai ragazzi algerini che partono sulle loro barche di plastica dalle spiagge di Annaba, dai miliardari russi e dalle loro ville, dai Berlusconi con le decine di ettari dei loro giardini mediterranei, dagli europei che già stanno comprando le case dei paesi e si trasferiranno da pensionati a vivere nella Florida tirrenica. Che problema c’è, dunque? Nessuno, obiettivamente. Ma a chi è toccato in sorte di far parte di uno di questi popoli, e di vivere l’epoca del finis Sardiniae, si addice il compito di cercare di capire cosa è successo. Considerate le circostanze storiche, i paesi sardi hanno dimostrato, contrariamente a quanto si pensa, una volontà e una capacità di sopravvivere quasi miracolosa. Tanti paesi alpini e appenninici sono vuoti da decenni. Conosco invece piccoli centri con poco più di 100 anime in cui gli abitanti si stringono ancora con orgoglio a far festa insieme, come se fossero una sola famiglia. Ma questo, a lungo andare, non basta, quando non esistono politiche in grado di ridare opportunità lavorative e speranza di futuro ai giovani. Da 60 anni esiste la Regione Autonoma della Sardegna, dalla fine degli anni Settanta, e sino a ieri, sono esistite le Comunità Montane, di cui quasi tutti i paesi sardi, moltissimi con solo poche e brulle colline, hanno fatto parte, dalla fine della guerra si sono succeduti Piani di Rinascita e politiche di sviluppo. Negli ultimi venti anni i fondi europei hanno sovvenzionato piani di azione locale, gruppi di azione locale, interventi di vario genere volti a suscitare un percorso virtuoso di crescita economica. Dei risultati non si ha notizia certa. Il dibattito politico non sembra fondarsi su dati presentati in modo obiettivo, per aiutare il cittadino a capire, giudicare, orientare le proprie scelte. Domina la demagogia della catastrofe attribuita all’avversario, senza che ci si senta mai in dovere di rendere conto di ciò che si è ottenuto quando pochi anni prima si era al governo. Magari anche delle difficoltà incontrate. I paesi sardi non hanno più da tempo un ruolo nell’economia e le attività produttive hanno perduto qualsiasi importanza. Paradossalmente sembrano aver resistito meglio le comunità pastorali, con i loro pascoli difficili, piuttosto che le pianure e le colline dai suoli più fertili. Almeno sino ad oggi, poiché le prospettive del settore non sono certo rosee. Immaginare e progettare un nuovo ruolo della gente delle campagne in relazione alla tutela del territorio, trasformare le qualità naturalistiche ed estetiche di quest’ultimo in un patrimonio da utilizzare come base per uno sviluppo turistico, avrebbero richiesto un impegno costante e serio nei tempi in cui i paesi erano più vivi e attivi. E soprattutto un enorme sforzo culturale, guidato dalla politica, che vedesse impegnati tutti i settori della società sarda. Ma questo non è avvenuto. Molto tempo è stato perso, ed ora è forse troppo tardi. Si pensi soltanto alla grande occasione perduta dei parchi regionali. Svaniti, non per l’opposizione delle “popolazioni”, ma per l’intromissione interessata di chi lucrava voti e prestigio temporaneo col lanciare allarmi; ingiustificati questi ultimi, o da mettere alla prova, ma capaci di allertare subito la difesa gelosa di un proprio spazio vitale. Gli attori sociali e culturali non sono stati all’altezza del compito. La Chiesa ha scontato la crisi della secolarizzazione e la scarsa presenza sul fronte della riflessione e della lotta per una società diversa e più giusta. Si potrebbe fare il bilancio del mezzo secolo di vita della Scuola Media in Sardegna, visto che essa sta scomparendo per mancanza di alunni, o è in gravissima crisi in molti paesi sardi. La presenza per la prima volta di una generazione di giovani laureati in numero considerevole ha portato ben poco vantaggio alla vita sociale e culturale dei nostri paesi. Non viene in mente il “Diario di un professore” che richiami anche lontanamente l’opera di Maria Giacobbe. Il 68 sardo, in buona parte cittadino e piccolo borghese (lo confermano le celebrazioni attuali, o le ricostruzioni di protagonisti di allora, il Pietro Clemente di Triglie di scoglio in primo luogo), emarginava socialmente e culturalmente i giovani di provenienza paesana e di famiglia contadina. Rientrati con la laurea nei loro paesi, avrebbero svolto un ruolo subalterno e passivo, contenti di una posizione di relativo benessere, utili al massimo per un livello più civile dell’amministrazione. Il sistema di reclutamento nazionale, poi, ha fatto si che l’esperienza in Sardegna costituisse un temporaneo apprendistato per giovani laureati poco interessati a mettere radici e ad agire nella società locali, scalpitanti in attesa di trasferimento. I pochi giovani che oggi vivono in Sardegna e vorrebbero restarvi non trovano opportunità di lavoro e ancora una volta sono costretti ad andare via. Ai giovani non manca solo il lavoro, manca ormai nel paese sardo la gioia di una comunità vitale. Ancora una volta è un’operazione culturale quella di cui i paesi avrebbero bisogno. Che coinvolga tutti gli strati della società, dai pochi bambini e ragazzi, adorati e allo stesso tempo abbandonati a se stessi da genitori e istituzioni che non riescono a parlare con loro, alle persone in età che sono ancora capaci di dare tanto e faticano a inventare e vivere forme nuove di socialità.
8 Aprile 2008 alle 21:27
[…] piu’ utilizzati, anche se un tempo i giardini e i cereali crescevano e le pecore pascolavano. Interi villaggi erano svaniti, gli edifici crollavano, bruciavano o si afflosciavano, mangiati dalle tarme e dai topi, le loro […]