La lotta dei tessili
16 Novembre 2014Graziano Pintori
Mercoledì 5 novembre sciopero dei tessili di Siniscola, Macomer, Ottana e Nuoro; il raduno dei manifestanti è nel capoluogo barbaricino in piazza Sardegna, tra l’ospedale Zonchello e la via La Marmora: la lunga strada scelta per essere calpestata da alcune centinaia di cassintegrati in deroga; ex operai tessili che da gennaio 2015 non riceveranno più i settecento euro mensili, l’elemosina che li fa galleggiare sotto la soglia di povertà. Ciascuno di questi porta la storia decennale del tessile nel centro Sardegna, sono i testimoni viventi dei fallimenti, degli ingenti finanziamenti a fondo perduto e altri incentivi svaniti come il fumo, o meglio come i macchinari delle industrie finiti in Turchia. Con gli operai restano i capannoni… monumenti post industriali vuoti, bui e freddi che nessuno vuole; anch’essi sono stati testimoni dei luoghi in cui si è consumata la fatica degli operai, è colato il loro sudore, si sono covate speranze e progetti di vita. Tutto è rimasto impresso nelle pareti di quei capannoni, anche i rumori dei macchinari dai quali gli operai producevano un milione di metri di tessuto jeans al mese, che la Legler di Ottana caricava sui camion diretti a Siniscola per essere sottoposti alla tintura e alla tessitura, poi il tessuto veniva trasferito a Bergamo per essere confezionato. Nonostante tutto, oggi, quegli operai sono svaniti, sono ex… sono fantasmi di se stessi, vittime di una brutta storia di sprechi: duecento milioni di euro distribuiti a pioggia per foraggiare fabbriche di filati, velluti, calze, collant ecc.; un fiume di denaro pubblico di cui nessuno ha dovuto rendere conto sia in termini economici e, tanto meno, in termini politici. Infatti, la componente politica quando mai si è preoccupata e attivata concretamente per il rispetto delle aspettative di sviluppo economico, tanto decantato e glorificato, di quei territori? Rivelatosi, al contrario, tanto propagandato quanto falso e insussistente? C’è stata troppa superficialità nella erogazione dei contributi pubblici a favore degli avventurieri del tessile: quelli che impiantano, assumono, “pappano” e vanno via! Una prassi che in Sardegna si perpetua impunemente e si giustifica mettendo in ballo la disperazione e la paura degli operai di perdere il posto di lavoro. Elementi umani sui quali il politico di turno ci giostra per nascondere l’incapacità allo studio, all’impegno, alla pianificazione di nuovi modelli di sviluppo; incapacità che si nasconde dietro le accuse alla politica e alla finanza nazionale e globale, all’espansione cinese nei mercati e alla globalizzazione. Certe critiche non escludono i sindacati, i quali nei momenti di crisi e/o pericolo chiusura di stabilimenti e attività varie non sanno percorrere altra via se non quella della mucca regionale. Anche loro danno la sensazione che non abbiano approfondito a sufficienza la possibilità della riconversione industriale, non propongono nuovi progetti che mirino a spandere in loco la marea dei finanziamenti pubblici e incentivare la vocazione economica naturale di questi luoghi. Nei fatti manca il coraggio di riconoscere che il modello industriale made sardinya è fallito. Infatti, l’impressione è che il neocolonialismo del tessile in Sardegna sia pari–pari a quello piratesco dei giganti dell’energia: impiantano, assumono, “pappano” e vanno via!
La manifestazione contava circa 400 partecipanti: la metà dei lavoratori tessili della provincia che nel 2015 usciranno dalla mobilità ordinaria; un quinto dei lavoratori tessili della provincia rimasti senza lavoro dopo la chiusura delle fabbriche Ros Mary, Eurfashion, GTM, Calzificio Queen, Legler di Siniscola, Ottana e Macomer. La manifestazione non era assordante, non era incazzata e determinata, ho avuto la sensazione che prevalesse più la rassegnazione che la speranza, più il senso della sconfitta che la volontà di lotta e di riscatto del diritto al lavoro, un senso di tristezza piuttosto che la gioia e la fiducia di chi non si arrende perché, comunque sia, crede sempre nella lotta. Aleggiava tra i lavoratori il senso dell’abbandono, considerata l’assenza dei politici regionali e nazionali e con essi latitavano le bandiere dei partiti, di tutti i partiti. L’aria non aveva colori, era grigia come il cielo.L’assenza di certa fauna politica era concreta, quella fauna che macina discorsi sui lavoratori e il diritto al lavoro, sull’occupazione e sviluppo. L’irreperibilità sostituita da un eloquente messaggio: fine della speranza.
La manifestazione è andata avanti lenta, con i sindaci in testa in rappresentanza dell’ultimo anello della catena istituzionale, sono lì a testimoniare la volontà di contenere la disperazione diffusa tra i loro amministrati. Però, fino a quando? Dicevo che non erano presenti bandiere di partiti, mi sono sbagliato. Durante il corteo c’è stato qualcuno che, sotto una bandiera rossa con i volti dei maestri del socialismo, distribuiva volantini sui quali si affermava il bisogno di battere nelle piazze e nelle fabbriche il governo antioperaio di Renzi e Berlusconi. Mi sono messo sotto quella bandiera innalzata dal compagno Franceschino Nieddu e con lui , lungo il tragitto, abbiamo parlato di lotte e speranze in modo convinto. Almeno a parole, al fianco dei lavoratori, non ci siamo sentiti arresi.