Luci su Gaza
23 Ottobre 2023[Maria Nieves Pili]
Gli eventi degli ultimi giorni hanno riacceso le luci su Gaza e sulla Palestina ed è stato significativo notare come coloro che hanno una approfondita conoscenza del contesto (per motivi familiari, di studio o di impegno politico) abbiano espresso il proprio pensiero, entrando in punta di piedi in un dibattito mediatico e social sempre più confuso e da tifo calcistico.
Ci si trova sicuramente di fronte a un evento che richiede, almeno dalla nostra parte privilegiata di osservatori esterni e sostenitori della causa palestinese, comprensione e rispetto per le metodologie scelte da questo popolo per reagire all’oppressione.
Non è questa la sede per fare l’ennesima conta dei morti o dibattere su chi ha iniziato prima; vorrei solo rimettere in ordine pensieri per dare un senso a queste morti.
Una analisi che possa ritenersi fondata dovrebbe parlare di resistenza popolare palestinese, e non solo identificare il fautore di queste azioni in Hamas. Questo, infatti, non porta ad altro se non a sostenere la narrazione dominante che vuole tutto il popolo palestinese associato a Hamas, organizzazione ritenuta terroristica e nemica non solo da Israele, ma da tutto l’occidente suo alleato, verificando così l’equazione “palestinese = terrorista”. Ma Hamas è solo uno dei gruppi all’interno del panorama politico palestinese, e non è di certo l’unico attivo nel portare avanti la resistenza, seppur possa sembrare quello dominante, a seguito di una serie di contingenze storiche e politiche verificatesi nella Striscia di Gaza.
In un contesto coloniale di insediamento come quello palestinese, in cui il colone israeliano mira a espellere (si legga eliminare) la popolazione nativa, ogni palestinese esistente è un palestinese resistente. La sola esistenza acquista valore di resistenza.
Adottando questo approccio, la resistenza non può che avere un altro valore anche agli occhi di noi, osservatori esterni che sosteniamo la causa dei popoli oppressi seguendo le nostre categorie mentali di moralmente giusto o sbagliato.
Ecco che la resistenza così intesa assume svariate forme: da quella culturale, artistica a quella armata. Come, del resto, assume diverse forme anche il tentativo del colone di eliminare il nativo: lo fa a livello accademico (quando i palestinesi cessano di essere soggetto storico); a livello geografico (quando la Palestina non si trova più sulle mappe geografiche); a livello mediatico e politico; a livello culturale (quando il colone si appropria della cultura del nativo, pensiamo ai recenti usi della Kefia o la rivendicazione dell’hummus come piatto israeliano) e tanti altri modi.
Ma queste forme “discorsive” vengono utilizzate dall’oppressore per giustificare l’eliminazione finale del nativo che, come stiamo chiaramente vedendo in questi giorni, si traduce in uccisioni indiscriminate di civili, bombardamenti a tappeto, chiusura delle forniture di acqua e corrente elettrica, bombardamenti degli ospedali, distruzione di interi quartieri e intere famiglie depennate per sempre dagli uffici anagrafe. Una dimostrazione di forza di uno degli eserciti meglio equipaggiati, verso una popolazione inerme che, non dimentichiamo, è ritenuta un tutt’uno con l’unica organizzazione responsabile di aver scatenato l’ira israeliana – Hamas.
Oggi si sono accese le luci su Gaza, ma questa condizione di soprusi e umiliazione si consuma in tutta la Palestina, davanti ai nostri occhi di osservatori moralmente giusti, da più di 75 anni.
Se si sostiene il popolo palestinese, si sostengono tutte le forme di resistenza che questo, collettivamente, sceglie di adottare per combattere contro l’oppressore in una situazione internazionale di completa solitudine. Forse è ora che le nostre categorie di resistenza giusta o sbagliata vengano messe in discussione.
Se la resistenza, qualunque forma il popolo scelga, avrà ora le forze per continuare a reclamare la posizione di protagonista che gli spetta in un tentativo di trattativa internazionale, senza dover delegare ad attori secondari questo ruolo; se l’Autorità Palestinese deciderà di sostenere finalmente le istanze del suo popolo in Palestina e nei campi profughi dei paesi confinanti, allora forse tutte queste morti di civili resistenti e militanti avranno avuto un senso. Almeno per noi, che stiamo moralmente dalla parte dei giusti. Per i palestinesi, queste morti un senso ce l’hanno già.