L’”uso” politico del calcio
1 Luglio 2016Gianfranco Sabattini
Oggi, l’affermazione che il calcio sia il gioco più bello del mondo suona falsa; forse è stato così nel passato, ma dagli inizi degli anni Novanta il football ha cambiato pelle: da gioco, esso si è trasformato in un comparto economico ad alto livello di fatturato e di rendimento dei capitali che vi si investono. A tal fine, ci si avvale strumentalmente dell’enorme cumulo di emotività che il gioco è sempre riuscito a promuovere, per essere orientato e manipolato in modo da risultare utilizzabile, non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sotto quello politico.
Per questi motivi, la strumentalizzazione dell’emotività suscitata dal gioco del calcio è divenuta un fenomeno preoccupante, perché fonte di instabilità sociale e di comportamenti che non è più possibile considerare, come si usa dire (sbagliando), puri e semplici atti teppistici; essi, in realtà, sono forme di violenza che non corrispondono a situazioni di disagio esistenziale, ma ad azioni intenzionalmente promosse, per finalità che sino a qualche anno addietro erano inimmaginabili.
Considerata la pericolosità sociale di queste azioni, è bene rendersi conto del come sia stato possibile arrivare a questo punto; ciò per individuare una politica pubblica potrebbe idonea a deprivare i “clienti” dei club calcistici di un’emotività, non più finalizzata a gratificarli con l’estetica delle linee geometriche del gioco e delle prestazioni puramente atletiche dei calciatori, ma volta a favorire operatori che, prima ancora delle natura sportiva del gioco, pensano solo alla sua trasformazione “per fare soldi”.
La trasformazione del gioco del calcio è avvenuta in contemporanea con il processo di internazionalizzazione delle economie nazionali; essa è valsa a creare, oltre che per le attività produttive tradizionali, anche per le cosiddette attività di intrattenimento, un mercato globale; questo ha reso possibile che quanto avviene come conseguenza dell’organizzazione di queste ultime attività in un determinato luogo possa essere riproposto in contemporanea in luoghi distanti migliaia di chilometri: è su questa possibilità offerta agli organizzatori di qualsiasi avvenimento spettacolare che il calcio deve la sua fruibilità universale.
Ciò è accaduto grazie allo sviluppo delle telecoumicazioni e all’avvento delle multinazionali televisive, che hanno reso possibile una diffusione transnazionale delle immagini del calcio, contribuendo a formare un’”ecumene calcistica” espressa dagli appassionati di questo sport, oggi stimati in circa in 1,2 miliardi di persone che lo seguono mediante i canali televisivi.
Il progressivo aumento dell’interesse per il calcio è dovuto, dunque, al continuo aumento degli appassionati, che alcuni osservatori imputano, da un lato, alla crescente dipendenza dal consumo televisivo di immagini come tendenza dominante delle nostra epoca; dipendenza che – a parere di Noris Gasparri – (“Premier league. Il nuovo impero britannico”, in Limes n. 2016), per conservarsi, ha bisogno di un consumo continuo, costante, come per le droghe”, nel senso la produzione di spettacoli calcistici da offrire allo sguardo degli spettatori, è necessaria per catturarne in modo costante l’attenzione e la loro emotività, derivate dalla loro identificazione nei contendenti in campo che, a sua volta, produce senso di appartenenza di gruppo. Altri osservatori e studiosi del mondo del calcio, come ad esempio Marc Augé (“Il calcio come fenomeno religioso”), antropologo francese all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, assegnano l’aumento di potere del gioco al fatto che per “la prima volta nella storia dell’umanità, a intervalli regolari e a orari fissi, milioni di individui si sistemano davanti al loro televisore domestico per assistere e, nel senso pieno del termine, partecipare alla celebrazione dello stesso rituale”: un rito celebrato da ventitré officianti davanti a una folla di “fedeli”, che raggiunge talvolta le decine di migliaia di individui, ai quali si sommano, davanti agli apparecchi televisivi, milioni di spettatori a domicilio. In questo modo, il football è divenuto un fatto religioso, in cui numerosi individui provano gli stessi sentimenti attraverso il “tifo”, mentre gli stadi si sono trasformati in luoghi nei quali si celebrano i grandi rituali moderni.
La data spartiacque che segna la trasformazione del calcio, da gioco (qual era) in occasione di investimento a scopo di profitto è – afferma Gasparri – il 1992, quando è stato stipulato il contratto quinquennale tra la “Premier League” e l’emittente di Rupert Murdock, alla cifra record di 304 milioni di sterline, per la cessione dei diritti televisivi; così è nato il “nuovo football”, “caratterizzato dall’alleanza strutturale tra i principali club calcistici di ogni nazione, organizzati in forma di lega, e i grandi network mediatici, in cui un termine sostiene l’altro in un rapporto appunto di reciproca dipendenza […]. In alcuni casi estremi, come il Messico, i due termini si fondano, con la proprietà delle grandi squadre di calcio che passa direttamente in mano ai grandi network televisivi”.
Il processo di commercializzazione del gioco del calcio è stato sorretto anche da altri fattori: in primo luogo, la “sentenza Bosman” della Corte di Giustizia europea, che ha liberalizzato il mercato dei giocatori, consentendone il libero trasferimento e determinando le completa conformazione del governo del comparto economico del calcio alla logica del mercato globale; in secondo luogo, l’entrata nel mondo del calcio dell’attività finanziaria, prima con operazioni di sponsorizzazione e, successivamente, con l’acquisizione della proprietà dei club calcistici, che ha determinato un cambiamento radicale della loro struttura finanziaria, nel senso che, mentre in precedenza la principale fonte delle entrate era rappresentata dalla vendita dei biglietti d’ingresso agli stadi, successivamente sono venute prevalendo le sponsorizzazioni, il merchandising (cioè l’utilizzazione dell’immagine di una squadra per vendere un dato prodotto, legato o meno al mondo dello sport) e i diritti televisivi.
La trasformazione del calcio in fonte di alti rendimenti e di visibilità globale ha determinato l’ingresso nelle principali nazioni calcistiche europee (soprattutto Regno Unito, Spagna, Francia, ed ora anche Italia) di capitali dei Paesi arabi produttori di petrolio, suscitando anche, per prevalenti ragioni geopolitiche, l’interesse di potenze globali, quali Stati Uniti, Russia e Cina.
Al di là degli aspetti relativi alla trasformazione subita dal gioco del calcio, ciò che assume una valenza politica è il modo in cui l’istituzione che ne sovrintende il governo a livello internazionale (la FIFA) è riuscita ad affermarsi come attore rilevante nell’attuale sistema di governance globale, acquisendo una forza che le consente di trattare alla pari con capi di Stato e di governo. Tutto ciò permette alla FIFA di agire nel campo della politica internazionale, creando non poche situazioni critiche a livello dei rapporti tra le superpotenze mondiali; situazioni che risultano a volte contrarie alle politiche nazionali dei Paesi coinvolti nel processo di trasformazione del gioco del calcio.
Due sono le occasioni in cui la FIFA compie azioni, fuori da ogni minima forma di controllo politico democratico: una riguarda l’assegnazione e l’organizzazione dei campionati mondiali; la seconda, il riconoscimento delle federazioni calcistiche nazionali. Ciò che colloca la FIFA in una posizione di forza nei confronti di uno Stato o di un governo è l’organizzazione dei campionati mondiali di calcio.
Si tratta di un’impresa politico-economica che – come afferma Nicola Sbetti (FIFA, la rivoluzione del gattopardo”, Limes n. 5/2016) “va ben oltre le possibilità di una federazione calcistica nazionale”; di conseguenza, quando sono coinvolti Paesi globali che, nella competizione internazionale, più che agli alti rendimenti del settore del football, sono interessati alla visibilità e al prestigio col quale possono soddisfare il loro interesse nazionale, ospitando lo svolgimento di una campionato mondiale, le decisioni della FIFA non lasciano indifferenti le Potenze concorrenti, soprattutto in momenti di crisi (è il caso di ricordare l’azione giudiziaria intentata nei suoi confronti dagli USA, risentiti per l’assegnazione alla Russia dello svolgimento nel 2018 dei campionati mondiali, in un momento in cui gli stessi USA erano impegnati ad organizzare sanzioni contro lo Stato russo).
La seconda occasione che permette alla FIFA di “intromettersi” nella conduzione delle politiche nazionali è il fatto che, nello svolgimento della propria attività, tende “a riflettere l’immagine di un mondo diviso in Stati nazione in competizione tra loro”; di conseguenza, schierare le squadre che li rappresentano, con tanto di esecuzione dell’inno nazionale, con il pubblico in piedi che lo canta con la mano sul cuore, vale a rinforzare uno spirito nazionalistico, contrario, sia allo spirito della campagna “no racism” promossa dalla stessa FIFA, sia all’affievolimento nei tifosi dell’aspirazione a che il loro Paese raggiunga finalità incompatibili con l’esaltazione emotiva dello Stato nazione.
Lo scontro tra Nazionali, sorrette dai propri “fans” al seguito, è spesso all’origine di disordini e di fenomeni di guerriglia urbana, solitamente definiti atti teppistici, mentre potrebbero rappresentare l’esito intenzionale di quegli Stati che usano il calcio per scopi geopolitici, mandando a tal fine i propri tifosi al seguito della propria Nazionale all’estero; come indurrebbe a pensare l’incomprensibile protesta di Putin per l’arresto degli “hooligan” russi in Francia, per gli atti violenti dei quali sono stati protagonisti negli scontri con gli “hooligan” al seguito di altre Nazionali.
In conclusione, con la sua trasformazione, il calcio, oltre che un’occasione per fare profitti, è divenuto mezzo per la conduzione della politica di potenza da parte degli Stati egemoni a livello globale, motivo di disordini all’interno degli Stati che sono sedi di manifestazioni calcistiche internazionali, ed infine causa del radicamento di valori che i Paesi dell’Occidente vorrebbero veder superati; tutto ciò induce a considerare giunto il momento di sottrarre alla FIFA il governo del fenomeno-calcio, la cui politicizzazione rende la Federazione calcistica mondiale del tutto inadeguata.