L’agrobusiness che non sfama
16 Dicembre 2009Pierluigi Carta
La siccità è una calamità devastante che affligge il Madagascar del sud, la sua morsa si stringe su una regione di sabbia, terra riarsa, capanne fatiscenti, secchi rotti, carri sbilenchi e reticolati arruginiti che recintano campi ingombrati solo da cactus. L’ex capo di stato malgascio, Marc Ravalomanana, accusato di illegittimità e autoritarismo, ha consentito l’apertura delle frontiere e l’invasione neoliberista, distruggendo così le imprese locali, e ha colpito gli interessi dei grandi investitori in monocolture postcoloniali. Ha incrementato il controllo fiscale ma ha attuato una politica personalistica che gli ha permesso di variare i cambi e le imposte a piacimento. Durante la sua carica la Tiko, impresa di sua proprietà, ha raggiunto proporzioni enormi, l’isola è stata ribattezzata infatti Tikoland, il paese dove tutto è in vendita. Le speranze animate dall’epilogo dei ventisette anni di governo di M. Didier Ratsiraka, sono state aspramente deluse: il paese è diviso, colpito da una siccità cronica e dalla mancanza delle strutture primarie. Più del 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e se i salari sono cresciuti del 10% l’inflazione è aumentata del 25%. L’accordo centenario con la multinazionale sudcoreana, Daewoo Logistic, per l’utilizzo di mezza isola malgascia è stato avviato durante il governo di Ravalomanana, nel dicembre 2008. La contrattazione è sempre stata ufficialmente negata dal Capo dello Stato e da M. Marius Ratolojanahari, Ministro della riforma fondiaria. Il contratto prevede la concessione per 99 anni di 1,3 milioni di ettari da convertire a mais, olio di palma e biofuel. I sudcoreani come controparte propongono 70 000 posti di lavoro e la costruzione delle infrastrutture indispensabili. I paesani invece affermano che si batteranno fino alla morte per difendere le loro terre. Nessun funzionario governativo è mai andato a parlare con gli abitanti dei villaggi, nessun tecnico dell’impresa sia esso geologo o ingegnere si è mai interessato alla loro esistenza; la situazione dei contadini è stata documentata da Hery a. Rasolo, un economista informatico malgascio prestato al cinema e scomparso nel settembre 2008, e dal suo amico Jean-Claude Rabeherifara ricercatore all’università di Paris Ouest. Il film Raketa Mena, un documentario realizzato con sistemi artigianali, illustra la condizione di un popolo racchiuso in piccoli villaggi che sopravvive senz’acqua, quindi senza l’elemento essenziale per l’igiene, l’agricoltura e l’allevamento. Rabeherifara è un sociologo ecologista, che cerca di costituire una crescita alternativa in Madagascar basandosi sulla partecipazione diretta della popolazione sostenuta dalle ONG che agiscono sul territorio, come l’Associazione Fifanampiana Malagascy, la GRET e l’AFASPA. A sud, nel paese di Beloha, si trova la centrale di pompaggio, costruita grazie all’aiuto dei giapponesi nel 1995. La chiamano infatti “acqua giapponese”. Una sola cisterna salva la vita a 15 villaggi e il trasporto viene effettuato tramite bidoni di ferro su carri di legno. Le pompe per funzionare hanno bisogno del gasolio e data la forte penuria sono attive solo tre giorni ogni tre mesi. Durante il periodo di siccità la vita quotidiana si riduce a mera sopravvivenza. La fame è una costante per i popoli del sud dell’isola, i quali sono costretti a mangiare solo Raketa mena, un frutto purpureo, che ricorda un fico d’India incrociato con una rapa. Essi mangiano il fico d’India “contre cœur”, la pianta infatti, a detta degli anziani, sottrae l’acqua alle altre coltivazioni e perfino dalle falde acquifere. Nelle campagne gli antenati piantavano il cactus Vazhas, o il cactus Taro, entrambi altamente vitaminici. Poi i colonizzatori francesi fecero disboscare tutta la coltura e imposero la coltivazione del cactus Rouge, che ha ucciso ogni altro tipo di vegetazione in soli 10 anni. Da questa pianta cresce appunto la Raketa mena, un frutto poverissimo di sostanze nutritive e che, se mangiato regolarmente provoca dissenteria, astenia e a lungo andare può portare alla morte. Nel 2005, in un paese sperduto come Ejeda e con grave emergenza idrica, l’allora presidente Ravalomanana ha saputo trovare il gasolio per permettere alle pompe di funzionare, giust’appunto durante la campagna elettorale. Gli abitanti dei villaggi non possono fare a meno di incolpare l’entourage, essi sostengono che i funzionari non hanno mai visitato le campagne per rendersi conto di quanto possa essere disastrosa la realtà. Si conta che in media muoiano 10 000 persone all’anno, soprattutto bambini. -Il Madagascar è diviso in due- racconta Rabeherifara -nel nord ci stanno le concessioni coloniali, le imprese e una parvenza di ricchezza. I settori trainanti sono la coltivazioni di vaniglia, di cui l’isola è la prima esportatrice al mondo e l’allevamento di gamberetti. A sud invece come unica speranza di guadagno resta la migrazione verso il nord-. Il sud ha un clima particolare, la cronica siccità impedisce l’allevamento e la crescita di riso, manioca e mais, gli alimenti base della popolazione. Anche il pesce è scomparso dalle coste, a causa della pesca industriale russo-nipponica. Nel 1990 ci fu una mobilitazione contro le navi sovietiche e giapponesi che derubavano le coste dell’isola, ma i risultati ormai sono evidenti. I giapponesi erano obbligati da contratto ad impiantare le strutture per pompare l’acqua dal suolo, le pompe però funzionano a gasolio e sono quindi oltre la portata economica dei contadini. Il contratto miliardario con la Daewoo Logistic è stato molto mediatizzato. Forse l’attenzione è dovuta al momento di congiuntura della crisi finanziaria con l’emergenza alimentare, ma l’accapparramento territoriale è solo uno strumento delle politiche neoliberali dell’agrobusiness. Rabeherifara sostiene che -L’accapparramento delle terre in Africa e in Madagascar non è una novità, e la colonizzazione ha fatto la stessa cosa attraverso l’immatricolazione forzata delle terre, con metodi che frustrarono economicamente gli abitanti-. La parte orientale dell’isola è già stata impiegata per la coltura di mais, gli Ogm sono stati impiantati e la palma da olio ha causato dei danni irreparabili alle specie locali. Alla nascita i bambini non acquisiscono lo stato civile, di conseguenza i proprietari dei campi, non avendo a disposizione documenti ufficiali, non possono far valere legalmente i loro diritti. Tutto ciò nell’ultimo secolo ha provocato deportazioni di intere comunità, distruzioni di villaggi e frequenti fenomeni di ribellione repressi con estrema violenza. -La storica costituzione malgascia rispettava la sacralità della terra e proibiva di venderla- continua il sociologo –ma l’ex presidente ha cambiato la costituzione rendendone possibile lo scambio e la vendita-. La terra era organizzata in un rigido sistema feudale, e solo in un’occasione, la regina malgascia donò un appezzamento di terreno ad uno straniero, l’ingegnere Jean Laborde, che nel 1860 approdò nell’isola e durante la sua permanenza aiutò la popolazione locale con alcuni lavori di ingegneria idrica.Tale donazione fu utilizzata dai francesi come pretesto per innescare la prima guerra coloniale, 1883–95. Anche il Presidente della transizione, Andry N. Rajoelina, ha detto che i termini del contratto non sono veritieri e che il progetto gioverà alla popolazione. Secondo l’opposizione e i membri delle ONG il discorso della classe politica è oscuro e fuggevole, e dietro il paravento di discorsi ideologici, i “gagnant-gagnant” e gli “ouil-ouil” sono i veri timonieri della macchina istituzionale e i rappresentanti riscuotono il favore delle autorità occidentali. Nessuna proposizione seria è giunta ancora dalla classe politica.