L’anno che ha fatto saltare il mondo

1 Aprile 2008

Manuela Scroccu

Io sono nata in anni bui, anni di piombo. La mia generazione deve averla respirata nel momento in cui è venuta al mondo l’aria di sconfitta della fine degli anni settanta, la fine del sogno annegato nel sangue della lotta armata. Da lì, il riflusso, la crisi della politica, il disimpegno, la crisi della democrazia. Il Sessantotto è quello che c’è stato prima, nel bene e nel male.
Curioso destino, quello del Sessantotto: dopo quarant’anni se ne parla ancora in modo frammentato e travagliato, ora con nostalgia ora emettendo severe sentenze di condanna. Alcuni hanno fatto risalire a quella stagione le cause della decadenza della società e della famiglia borghese. In tali processi molti hanno visto l’origine della successiva violenza dei tanti terrorismi che insanguinarono l’Italia e l’Europa nei decenni seguenti. Pasolini stava con i poliziotti e non con gli studenti, in una famosa e sicuramente molto fraintesa invettiva sugli scontri di Valle Giulia. Aveva, forse, intravisto il carattere fortemente controrivoluzionario di certi settarismi e aveva colto meglio di altri il fatto che il Sessantotto sarebbe stato uno spartiacque tra un prima e un dopo che non avrebbero avuto più niente in comune: fino a quella “cosa” nella quale siamo oggi immersi e che gli storici e i sociologi definiscono postmodernità, intendendo con essa una dimensione globale dei processi produttivi capitalistici, un’attenuazione dei poteri statali e la crisi delle democrazie partecipative. Non è forse questa la sparizione delle lucciole?
“Il 1968 iniziò come dovrebbe iniziare ogni anno ben ordinato: di lunedì”. Così dice Mark Kurlansky, storico americano che al sessantotto ha dedicato un bel libro “1968: l’anno che ha fatto saltare il mondo”.
Nel nostro paese, il Sessantotto piombò come un uragano su un assetto sociale in cui convivevano boom economico e profonde disuguaglianze tra nord e sud, in cui le nuove classi dirigenti del dopoguerra avevano tentato di ricostruire il paese, modernizzandolo, ma si erano scontrate con una parte consistente di società che ancora non aveva eliminato completamente le scorie di una cultura fascista e oscurantista che aveva messo radici profonde nella borghesia italiana.
Per la verità, in Italia il ‘68 iniziò alla fine del 1967 con l’occupazione della cattolica di Milano. Poi fu Valle Giulia, il 1 marzo 1968, e le cariche della polizia, i manganelli, i lacrimogeni, il fuoco, le pietre, gli scontri, gli arresti, i feriti. Fu anche la strategia della tensione, e le stragi di stato. Per il nostro paese fu anche l’inizio di un periodo di crisi del sistema politico che, con il fallimento dell’esperimento del governo di centro sinistra, precipitò, nei decenni successivi, nel buco nero del caso Moro fino all’affermarsi di un sistema politico debole e corrotto, diviso e sempre più lontano dalla società civile. Governi che avrebbero prodotto il populismo mediatico di Berlusconi e la fine dei partiti di massa.
Ma il Sessantotto fu soprattutto una violenta deflagrazione globale: prima Berlino, poi il maggio francese, con la Sorbonne in mano agli studenti. E al di là della cortina di ferro, Praga e la sua primavera, e con essa l’inverno dell’illusione del socialismo reale. Fu l’anno della morte di Martin Luther King. E su tutto, l’ombra lunga del Vietnam, il simbolo della caduta morale dell’occidente. Guerra mediatica, diremo oggi, che entrò di prepotenza nei tinelli delle case per bene di tutto il mondo, rendendo evidenti tutte le contraddizioni di un mondo bloccato dalla guerra fredda.
Cosa fu dunque il Sessantotto? Un complicato intreccio di uomini, donne, idee, episodi, comportamenti, aspirazioni, desideri e delusioni. Un vento di cambiamento pieno di contraddizioni che ha soffiato su più di una generazione e ha segnato la rottura con un assetto sociale e politico ormai sclerotizzato e autoritario. Un sentimento universale che portò, anche se solo per un attimo, alla rivolta collettiva e ad un nuovo umanesimo. Furono i figli del boom che non avevano vissuto la seconda guerra mondiale, a strappare il velo dell’oscurantismo, a urlare: la fantasia al potere. Per la prima volta, e prepotentemente, l’Umanità, come dice lo storico Marco Revelli, diventò un soggetto storico e morale di riferimento.
Il movimento che si generò in quegli anni fu spontaneo, internazionale, e fu guidato dagli studenti, e più in generale dai giovani, che occuparono scuole e università , in una prospettiva rivoluzionaria che investì tutti gli ambiti della vita quotidiana, non solo quelli politici, ma quelli marcatamente esistenziali. Una forza magmatica che, senza centri di direzione e strutture organizzative, si è trasmessa da una parte all’altra del continente conservando, nonostante i differenti contesti ideologici e politici, un’impressionante omogeneità di forme e di linguaggi.
Quella generazione mosse compatta contro l’autoritarismo e l’arretratezza delle strutture scolastiche, degli apparati statali, dei luoghi di produzione, in nome dell’utopia di un mondo senza capitale e senza alienazione, senza miseria e disoccupazione. E, chiaramente, fallì, trasformandosi, in buona parte, in una classe dirigente assolutamente autoreferenziale e pervicacemente attaccata al “potere per il potere”.
La mia generazione ha un rapporto conflittuale con i protagonisti di quella stagione. Li guardiamo con invidia ma anche con rimprovero. Ci mostrano quello che non sappiamo essere, forza trainante e innovatrice, e anche quello che potremmo diventare, oscuri burocrati dell’esistente. I ventenni e i trentenni di allora, in fondo, sono quelli che oggi hanno condannato i giovani ai margini della vita politica, pubblica e produttiva. Le università non sono più un luogo di innovazione e discussione ma esamifici che hanno il compito di sfornare mediocri pensatori e ottimi lavoratori precari. Nessuna possibile forza rinnovatrice e rivoluzionaria sembra poter scaturire da una generazione cresciuta nel regno incontrastato del consumismo e del potere mediatico della tv spazzatura. Una società che emargina i giovani, che li costringe ad una perenne adolescenza e a una vita precaria, è una società morta. Se il Sessantotto fu un’esplosione rigenerante in un mondo paralizzato, questa stessa esplosione dobbiamo ricercare anche noi per uscire dal coma.

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