La Fiat si rinnova, in peggio

16 Marzo 2011

Marco Ligas

In questi mesi si parla molto di lavoro e di condizione operaia. Si cerca di spacciare l’attacco contro i lavoratori come un’operazione fisiologica di cambiamento. La società si evolve(!) e perché non deve farlo anche il lavoro? Ho parlato di questi aspetti con Gianni Usai, membro del Consiglio di fabbrica della Fiat negli anni ’70. Quali diversità e quali analogie fra quel periodo e quello attuale: davvero un cambiamento che ci autorizza a parlare di progresso?

Marco – Nell’ottobre del 1980 quarantamila “colletti bianchi” sfilano per le vie di Torino. Contestano e prendono le distanze dalle lotte operaie. È la rivincita della Fiat, con Cesare Romiti amministratore delegato. La grande manifestazione cambierà i rapporti tra lavoratori, sindacati e azienda. Fu un duro colpo per l’occupazione tanto è vero che due anni più tardi verrà definitivamente chiuso lo storico stabilimento del Lingotto.
A distanza di 30 anni a Pomigliano e a Mirafiori si ripete l’attacco della Fiat ai lavoratori, situazioni diverse ma stessa ispirazione: ricatti e tentativo di cancellare i diritti di chi lavora, anche passando sopra la Costituzione
Proviamo a mettere in evidenza analogie e diversità tra questi due periodi.
In primo luogo bisogna sottolineare il mutamento che c’è stato nel corso di questi decenni. Mutamento tecnologico innanzitutto. Sino alla fine degli anni ‘70 e primi anni ’80 la produzione dell’auto, di tutte le sue componenti (sino ad ottenere l’auto pronta per la vendita), era concentrata nella grande fabbrica. Mi vengono in mente le considerazioni di Marco Revelli: la fabbrica doveva essere grande, funzionale e ben organizzata.
Col passare del tempo l’organizzazione del lavoro è cambiata: la produzione dei singoli pezzi è stata decentrata nelle varie aziende dislocate in altri paesi. Questo è successo perché l’economia di scala è entrata in crisi: seppure i costi unitari si siano ridotti progressivamente, e ciò ha favorito l’aumento delle unità di prodotto, la diffusione crescente di queste unità ha raggiunto un limite. Non si può fabbricare all’infinito un prodotto se non trova poi uno sbocco nel mercato.

Gianni – È vero, più si estende la globalizzazione e più i mercati sono limitati. Diventa impossibile garantire a tutti un accesso ai beni. Il sistema produttivo, nel passaggio dal fordismo al toyotismo, ha conosciuto una caratteristica che prima gli era estranea: l’imprevedibilità. La domanda delle merci prodotte è diventata variabile e di conseguenza sono cambiate le programmazioni aziendali: non più di breve durata. Senza questa scelta il rischio della sovrapproduzione sarebbe diventato automatico.
Questo processo, in qualche modo, ha invertito il rapporto di forza fabbrica-mercato. Di conseguenza è cambiata anche la capacità contrattuale dei lavoratori: prima un loro sciopero comportava il blocco della produzione, cioè un danno notevole per l’azienda. Poi non è stato più così ed è cambiata la strategia della lotta sindacale.
Non dimentichiamo però che questi processi si delineano alla fine degli anni ’70. Sino ad allora e a partire dalle lotte del biennio 68/69 la situazione alla Fiat è più favorevole ai lavoratori. Intendiamoci nessun regalo da parte padronale; tutto ciò che si è riusciti ad ottenere è conseguenza di un impegno notevole dei lavoratori. È in quegli anni che rinascono i consigli di fabbrica il cui ruolo è risultato fondamentale. Sono i lavoratori che stanno nelle linee di montaggio che conoscono bene, perché li vivono sulla propria pelle, i ritmi di lavoro, i bisogni delle pause, i rischi degli infortuni. Saranno questi lavoratori che tratteranno con l’azienda sulle misure da adottare per la tutela della salute e, più in generale, per la definizione del salario e degli orari. Non dimentichiamo che è proprio nel ’69 che viene sancita la fine dell’obbligatorietà degli straordinari.

Marco – Il discorso che fai sui ritmi, sulle pause, sulla tutela della salute, mostra quanto siano stati inopportuni gli interventi di Fassino o Chiamparino sui referendum imposti da Marchionne. Questi interventi sono il segno della non conoscenza della condizione di lavoro che si vive in una fabbrica dove diventano importantissimi anche 10 minuti di pausa. Il concetto di lavoro usurante sembra fuoriuscito definitivamente dall’orizzonte di questi dirigenti, sempre più protesi verso mediazioni al ribasso anche quando sono in gioco i diritti inalienabili dei lavoratori.
Credo che la posizione assunta da Landini sia stata molto importate in proposito. Non si può barattare il lavoro con i diritti che ad esso sono strettamente legati e che, tra le altre cose, sono ampiamente riconosciuti dalla nostra Costituzione. Inizialmente parlavo di differenze e somiglianze tra la lotta attuale e quella dei decenni precedenti. Nelle proposte/imposizioni di Marchionne sono indicate soluzioni, per quanto riguarda la rappresentanza dei lavoratori, che mi pare ci riportino addirittura al periodo precedente il biennio 68/69: vengono riproposte le commissioni interne nominate dall’esterno dai dirigenti sindacali. Queste sono provocazioni che hanno come obiettivi il ricatto e la subalternità dei lavoratori.

Gianni – È da alcuni decenni che il rapporto tra produttività e salario è diventato unidirezionale, è venuta meno cioè la redistribuzione della ricchezza; ad un aumento della produttività non corrisponde una crescita dei salari. Questa disparità non la riscontriamo soltanto confrontando i redditi dei dirigenti e quelli dei lavoratori. Il caso dell’amministratore delegato della Fiat è certamente clamoroso, ma se andiamo a vedere i redditi delle famiglie italiane non possiamo non registrare come la ricchezza sia distribuita sempre più in modo ineguale. Questi dati dicono che non è vero che la globalizzazione impone sacrifici a tutti. È evidente come la globalizzazione venga usata come un deterrente per accentuare le disparità di classe.
Penso che sia importante vedere, seppure in modo schematico, anche altre cause che hanno determinato il cambiamento. E capire come è andata avanti nel nostro paese l’inversione di tendenza rispetto alle conquiste degli anni ‘60/’70. Delle ragioni oggettive che riguardano la crisi del fordismo ho già detto. Fra le altre cose non possiamo sottovalutare il ruolo svolto dai partiti, dalla politica come si usa dire. Su questo versante dobbiamo registrare due aspetti simmetrici: da una parte una presenza eccessiva dei partiti nelle lotte sindacali, quasi un ingerenza. Ricordo per esempio l’atteggiamento prudente suggerito dal PCI, soprattutto dopo la vicenda cilena; atteggiamento che favorì la proposta del compromesso storico e perciò l’avvicinamento di questo partito alla prospettiva del governo. Questa ipotesi imponeva naturalmente un’attenuazione della conflittualità sociale e delle lotte sindacali, e ciò non fu accolto con entusiasmo dai lavoratori.

Marco – Penso che anche il terrorismo abbia avuto un peso non trascurabile in quegli anni. In più di una occasione hai sottolineato come proprio alla Fiat, dove eri membro del consiglio di fabbrica, vi siate trovati talvolta in difficoltà, attaccati da una parte dall’azienda perché ritenuti dei facinorosi e dall’altra da qualche esponente delle brigate rosse perché considerati servi del padrone. È comprensibile come, stretti in questa morsa e per di più condizionati da una situazione politica che stava subendo un’involuzione, abbiate trovato serie difficoltà a proseguire il lavoro iniziato nel biennio 68/69.
Se osserviamo il quadro politico odierno e lo confrontiamo con quello passato dobbiamo sostenere che la situazione è davvero cambiata. Oggi si dice che la politica sia latitante rispetto ai conflitti sociali in corso. Io sono del parere che il silenzio non sia sinonimo di equidistanza. Quando dai responsabili del sistema industriale viene sferrato un attacco violento contro il lavoro e diritti delle persone e il governo del paese non interviene, questo governo manifesta una grave complicità, tanto più preoccupante perché accompagnata da una politica che decurta la spesa pubblica e perciò aggrava i bisogni delle fasce più deboli della popolazione. Credo che il disegno di Marchionne e della Fiat abbia preso corpo anche perché non ha trovato alcuna resistenza da parte della politica.
Un altro aspetto da classificare come una diversità rispetto al passato riguarda l’unità sindacale. Mi pare che la frattura che si è determinata tra le confederazioni sia tale che risulta davvero difficile prevedere in tempi rapidi una ricomposizione. Le ragioni della frattura sono profonde e riguardano aspetti importanti come la partecipazione alle scelte e le relazioni democratiche.

Gianni – Io ritengo che nonostante tutte le difficoltà che hai sottolineato, sarà difficile per la Fiat far passare i contenuti dei referendum. Non si possono ridurre le pause di lavoro, non è possibile creare un sistema di turni come vorrebbe Marchionne, né si possono imporre gli straordinari secondo le modalità stabilite nel programma sottoposto a referendum; non si può fare tutto ciò senza logorare il fisico dei lavoratori, sottoponendoli tra l’altro alla rinuncia del pasto e riducendo persino la possibilità di andare al cesso. L’età media degli operai Fiat non è bassa e perciò non è possibile che reggano a lungo questa organizzazione del lavoro. E allora c’è da ipotizzare che Marchionne abbia in mente qualcosa di diverso da quel che dice: o intende ridurre comunque i livelli occupativi licenziando i lavoratori appena daranno segnali di scarso rendimento, o pensa che il suo piano, nel nostro paese, a causa degli alti costi del lavoro (!) sia destinato a non realizzarsi e perciò prende tempo in attesa di costruire altrove gli stabilimenti.
Comunque andrà la vicenda Fiat sembra ormai evidente che il piano Marchionne abbia agito da moltiplicatore all’interno del nostro sistema industriale. L’ipotesi di abolire il contratto collettivo del lavoro diventa sempre più concreta e perciò si fa strada il contratto di secondo livello che metterà i singoli lavoratori in una situazione di ulteriore debolezza davanti ai ricatti dell’azienda. Pensiamo alle conseguenze che avranno nelle regioni del sud e in Sardegna queste nuove regole: saranno devastanti.

Marco – Parlando della Sardegna non possiamo non registrare come nella nostra isola le questioni del lavoro assumano sempre aspetti diversi da quelli che riscontriamo nel resto del paese. Ho già avuto modo di scrivere, sul manifesto sardo, come il dibattito sul processo di industrializzazione si sia sempre svolto su un piano più arretrato, talvolta anche parallelo rispetto a quello nazionale. Raramente le nostre riflessioni hanno riguardato l’organizzazione del lavoro all’interno delle fabbriche. Si è discusso di più di occupazione e disoccupazione, di come incentivare le attività industriali, del dove localizzarle; molto meno si è parlato dei diritti dei lavoratori, della loro tutela per preservarli dai rischi che a volte la lavorazione di materie prime inquinanti produce. Si è parlato poco anche di tutela ambientale. Abbiamo considerato sufficiente l’apertura dei cantieri da parte delle imprese. Al tempo stesso abbiamo sottovalutato come queste nuove attività non fossero garantite per lunghi periodi, non solo ma come fosse necessario incentivarle continuamente con l’erogazione dei denari pubblici. Avendo sottovalutato questi aspetti ci ritroviamo oggi con percentuali di disoccupati molto alte e con un territorio che mostra i segni di un uso irresponsabile di chi ha realizzato gli insediamenti industriali.

Gianni – Io aggiungerei qualche altra considerazione. Anche nelle situazioni più arretrate trovo necessario un impegno perché nel posto di lavoro si consolidi la democrazia e vengano rispettati i diritti di tutti. Faccio un solo esempio: quando il padronato ha avviato la politica degli appalti succedeva che lavoratori che svolgevano le stesse mansioni subivano trattamenti differenti a seconda dei contratti stipulati dalle singole società appaltatrici. Queste differenze alimentavano naturalmente non processi unitari tra i lavoratori ma conflittualità e rendevano più problematica una lotta sindacale che avesse come obiettivo la parità dei diritti.
Talvolta, quando parliamo dell’orario di lavoro e dei turni, sottovalutiamo la durata complessiva della giornata lavorativa. Non ho la pretesa di considerare il tempo dei trasporti come orario di lavoro da retribuire, ritengo però che non si possa trascurare questo aspetto, se non altro quando si vuole imporre l’obbligatorietà degli straordinari. Il tempo e i costi dei trasporti, soprattutto nelle grandi città, sono un onere pesante a carico di chi lavora. Capisco come questo richiamo, in una fase di crisi del lavoro, possa apparire una rivendicazione aristocratica, ma non è così, la interpreto più semplicemente come un aspetto importante della qualità della vita che dovrebbe appartenere a tutti indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI