Ma quale autonomia del nord. Vogliono battere cassa!

16 Luglio 2019
[Cristiano Sabino]

Pubblichiamo un contributo di Cristiano Sabino sul tema dell’autonomia differenziata relativo al resoconto di un ciclo di incontri di studio e di approfondimento con gli attivisti e le attiviste della rete “Il Sud Conta” organizzato da Caminera Noa, in collaborazione con due spazi sociali sardi, Su Tzirculu di Cagliari e la Casa del Popolo di Bosa. (red).

Le regioni del Nord chiedono autonomia. Il punto sta pure scritto nero su bianco nel contratto di governo tra Lega e 5Stelle. La sinistra (da quella moderata a quella dura e pura) grida al padanismo, all’attentato alla sacra metafisica dell’unità repubblicana, alla “secessione dei ricchi”. Ma cosa c’è dietro? Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna vogliono davvero la secessione?

Innanzi tutto va fatto notare che, a parte il Veneto, nessuna delle altre regioni aspiranti autonome vanta alcun titolo culturale e storico per poter rivendicare autonomia o l’inizio di un percorso di autodeterminazione. Paradossalmente lo potrebbero rivendicare le regioni del sud e in particolare il Napoletano. E infatti le questioni cruciali (lingua, sovranità politica, memoria storica, identità di popolo e nazione) che solitamente riguardano le battaglie per i percorsi di autodeterminazione semplicemente in questo dibattito non emergono. Di che autonomia si sta allora discutendo?

Potremo definirla una nuova “piemontizzazione” dello stato italiano, nel senso che si tratta di un processo di lungo corso che ricalca l’esperienza di accumulazione primitiva di capitali e risorse che il Ducato di Piemonte (poi “regno” dopo l’annessione coatta della Sardegna del 1713) ha messo in atto dal 1713 al 1861.

Il regionalismo differenziato in realtà è parte di un processo più lungo che comincia con la riforma del titolo V della Costituzione, anno 2000. L’allora governo di centro-sinistra (non la Lega) diede il via ad una riforma costituzionale che eliminava dalla Carta la parola “mezzogiorno”. Sembrerebbe un atto meramente formale invece apre le porte al saccheggio delle risorse pubbliche da sud verso nord.
Anche se il Regionalismo Differenziato mette al centro le regioni a statuto speciale, le Isole (Sardegna e Sicilia) non sono risparmiate dal saccheggio. Infatti nel 2011 in Italia viene introdotta un’altra riforma apripista del Regionalismo, il federalismo fiscale. Con quest’ultimo la parte maggioritaria dei tributi che spetterebbero ai comuni, Imu-Tasi e le loro evoluzioni, non viene più raccolta dallo Stato centrale e poi ridistribuita ai singoli enti, ma viene lasciata nelle casse comunali. Questo sembrerebbe un bene, ma in realtà non lo è perché viene istituito un fondo di solidarietà tra comuni e la Costituzione (proprio in quel famoso titolo V) dice chiaramente, che deve esserci il 100% di perequazione per quei comuni che non riescono a garantire i servizi ai propri cittadini. Nulla di tutto ciò ha mai funzionato, ripetendo lo stesso copione scritto dalla nascita dello stato italiano, la perequazione è arrivata al 55% e il fondo di solidarietà grazie al perverso meccanismo dei costi standard, ha finito per premiare i comuni ricchi (Nord) a discapito dei comuni più poveri (sud e isole). Alla fine della fiera i comuni e le regioni che sono già più ricche e che hanno più servizi attirano più risorse e quelle più povere spesso non ne ricevono (vedere il libro del giornalista Marco Esposito “Zero al sud” sui tanti “zero” di spesa pubblica di molti comuni del sud). Insomma riforma del titolo V e federalismo fiscale hanno istituito un meccanismo secondo cui i comuni e le regioni ricche diventano più ricche e quelle povere si impoveriscono.

La SVIMEZ ( Associazione per lo SVIluppo dell’industria nel MEZzogiorno) calcola che solo tra il 2014-2016 ai comuni sud insulari sono stati sottratti fondi per 60 miliardi di euro l’anno, miliardi di euro tolti ai servizi di milioni di cittadini dirottati alle regioni e ai comuni più ricchi.
Solo per fare un esempio si calcola che la spesa per abitante nella città di Reggio Calabria sia di 90 euro annui, mentre nell’omonima Reggio emiliana, la spesa supera i 1000 euro, nonostante la popolazione sia di gran lunga inferiore.

Qui possiamo già tracciare la prima riga e trarre alcune conclusioni. Non si tratta né di autonomia, né di rivendicazioni popolari, né tantomeno di movimenti per l’autodeterminazione di nazioni senza stato, bensì di un rilancio del medesimo meccanismo di accumulo di risorse e capitali con cui le classi possidenti del nord vogliono adeguarsi agli standard (e soprattutto tedeschi, svizzeri e austriaci) dei loro cugini europei. Nessuno vuole veramente dividere l’Italia in due, anzi l’unità della Repubblica è funzionale a questo processo di neoaccumulazione che ricalca in tutto e per tutto il processo di svuotamento di sovranità e la creazione di diseconomie funzionali al lancio del blocco industriale del triangolo Milano-Torino-Genova di fine Ottocento e inizio Novecento (come ben dimostra Zitara nei suoi libri). Ma andiamo avanti.

La mancata definizione degli stessi Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP) introdotti dall’articolo 117 della Riforma Costituzionale per garantire, almeno in teoria, la coesione sociale, le pari opportunità dei cittadini e la solidarietà tra i diversi territori dello stato e la loro sostituzione con “standard territoriali differenziati” rappresenta non un percorso verso la valorizzazione delle autonomie o il primo passo per garantire il diritto all’autodeterminazione delle nazioni senza stato compresse nella Repubblica, ma l’istituzionalizzazione delle disuguaglianze e delle discriminazioni in particolare nei confronti dei cittadini delle regioni meridionali e delle isole.

In tutto questo bisogna ricordare la famosa questione della vertenza entrate sarda a cui si è andata ad aggiungere la vertenza sugli accantonamenti.

Citiamo dalla rivista Diritti regionali (https://www.dirittiregionali.it/wp-content/uploads/2019/03/documento-integrale-3.pdf) che traccia una breve ma lucida sintesi delle due vertenze:

Nell’ultimo decennio, le relazioni finanziarie tra Stato e Sardegna sono state caratterizzate da una costante conflittualità . Sono due, in particolare, gli ambiti in cui questa si è manifestata. Il primo concerne la c.d. “vertenza entrate”, ovvero il contenzioso davanti alla Corte costituzionale originato dal mancato trasferimento, da parte dello Stato, delle quote di compartecipazione al gettito dovute, in esecuzione dell’art. 8 dello Statuto, alla Sardegna. Il secondo riguarda, invece, un’altra e non meno importante vertenza, detta “vertenza accantonamenti” che, diversamente dalla prima, oltre a risultare ancora aperta e oggetto di conflittualità, concerne la determinazione del quantum di risorse che, sebbene spettanti alla Regione, vengono trattenute a livello statale quale contributo al risanamento della finanza pubblica.

Stiamo parlando della mancata riscossione da parte della Regione Autonoma di Sardegna di miliardi di euro. Per quanto riguarda la vertenza entrate è noto a tutti il ritiro dei ricorsi della giunta Pigliaru (centrosinistra). In cambio infatti del riconoscimento di un diritto statutario (quindi costituzionale) e cioè del riconoscimento in Commissione paritetica Stato-Regione delle norme di attuazione dell’articolo 8 dello Statuto, (quello che elenca tutte le entrate che spettano alla Sardegna), la giunta Pigliaru aveva accettata di ritirare tutti i ricorsi e di accettare un piccolo bonus forfettario di circa 700 milioni di euro a fronte di almeno 10 miliari di euro calcolati a partire dal 1994 (i decenni precedenti erano per così dire passati in cavalleria).

La questione delle entrate mancanti di cui nessuno si era accorto era stata sollevata da Angelo Caria nei primi anni Novanta per poi essere ripresa da IRS e da alcune associazioni all’inizio degli anni Duemila. La giunta Soru aveva raccolto la palla alzata dagli indipendentisti e aveva chiesto non solo l’immediata applicazione dell’ art.8 dello Statuto sardo (alla Sardegna spetterebbero i 7 decimi dell’IRPEF e la quota prevista di IVA e invece riceveva molto meno e senza alcuna regolarità).

Soru aveva ottenuto, in sede di accordo con il Governo, la restituzione di metà del debito dello stato italiano con la Sardegna (non 10 miliardi, bensì 5) ma quei soldi non sono mai arrivati. Pigliaru si dimostrerà ancora più lealista e firmerà la chiusura per 700 milioni. Insomma è un po’ come quando lo Stato vi chiede di pagare non solo un bollo scaduto, ma anche i precedenti. Solo che a parti inverse non funziona così, perché nessun contribuente si sognerebbe di dire: «senti Stato, io non solo non ti pago manco un euro di mora, ma non ti do neanche il dovuto. Se vuoi ti do in dieci anni la metà di quanto di devo, anzi no, ho cambiato idea, te ne do a mala pena un decimo. Però poi dopo inizio a pagare le tasse regolarmente. Cuntentu ses?».

Questo è quanto ha fatto la RAS facendola passare come grande vittoria di popolo con la complicità dei media sardi.

La seconda questione è quella degli accantonamenti. Questa, se possibile, risulta ancora più ridicola della “soluzione” della vertenza entrate. Dal governo Monti infatti la Sardegna era vittima di un prelievo forzoso illegittimo e illegale diventato fra l’atro annuale quando invece per definizione gli accantonamenti hanno una natura “una tantum”. La Sardegna infatti ha vinto il ricorso sugli accantonamenti e la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima l’ultima Finanziaria del Governo Gentiloni, poi passata in eredità al governo giallo-verde: in pratica i 781 milioni pretesi alla Regione Sardegna dalla Legge di Bilancio come contributo per appianare il debito della Repubblica è stato dichiarato illegittimo. Fra l’altro ci sarebbe da chiedersi in che modo i sardi hanno contribuito a creare questo debito e perché devono contribuire a ripagarlo, visto che, semmai dovrebbe essere la Sardegna a vantare crediti verso la Repubblica. Da tenere in contro poi che i giudici, nella loro sentenza scrivono che la “ragione erariale”, (ovvero la necessità di incassare denaro dalle Regioni per far fronte al debito pubblico), non può essere un “principio tiranno”.

Insomma la Corte Costituzionale ha dichiarato che lo stato italiano si è comportato come uno stato tiranno verso la Regione Autonoma della Sardegna. Mica gli indipendentisti eh! La Corte Costituzionale!

Inutile parlare di “regionalismo differenziato” e di “autonomia del nord” se si prescinde da questi e altri ragionamenti . Bisognerebbe anche aprire una serie riflessione sul fatto che le regioni che hanno già l’autonomia – a parte forse le province autonome di Trento e Bolzano – sono legate al palo e soprattutto nel caso della Sardegna si tratta di una autonomia fittizia, priva di poteri reali e di quelle competenze che servirebbero per garantire la sopravvivenza della lingua e della cultura sarda e di una gestione economica utile allo sviluppo dell’isola e non agli interessi delle multinazionali e di modelli esogeni sempre più predatori ed estrattivi.

La campagna del “Sud Conta” è importante per questo e i movimenti anticolonialisti e per l’autodeterminazione sarda dovrebbero costruire un proprio percorso di opposizione e di proposta: fermare l’applicazione del Regionalismo differenziato così come viene concepito dal Governo, sostenere il diritto all’autodeterminazione per le nazioni senza stato e rilanciare la riforma dello Statuto Sardo, come fra l’altro aveva proposto lo stesso presidente della RAS Solinas quando era consigliere regionale d’opposizione e poi senatore (e di cui oggi non si parla più).

Da respingere invece l’isterica reazione neorisorgimentalista della sinistra sciovinista e patriottarda capitanata dalla CGIL e in particolare dalla FLC (comparto scuola) che grida all’attentato dell’unità statuale e si oppone al trasferimento di alcune competenze in materia di scuola persino alle regioni già a statuto speciale «perché l’ordinamento è e rimane nazionale e diritti e doveri non sono regionalizzabili, rimanendo nella potestà regolativa del Contratto nazionale. (…) il diritto all’istruzione ma, aggiungiamo, tutti i diritti costituzionali a carattere universale, non possono entrare nei processi di autonomia differenziata, pena la dissoluzione dello Stato nazionale e dell’identità culturale del nostro Paese».

Al lupo! Al lupo! difendiamo l’unità del nostro Paese, con la P maiuscola. Non un ragionamento sugli stipendi da fame degli insegnanti, sui sempre crescenti carichi di lavoro, sulla via crucis inutile e dannosa delle prove invalsi, sulla chiusura delle scuole (specie in Sardegna), sul fatto che la 107 non è stata abrogata ma solo calmierata. No, il problema della CGIL è la sacra unità del “Paese” e l’identità cultura italiana.

C’è da fare un atto di coraggio, smarcarsi da simili posizioni ideologiche e per noi dannose, ed entrare nel dibattito su regionalismo differenziato e autonomismo con una posizione sardista e popolare originale e creativa che abbia la capacità di dettare la nostra agenda e non di inseguire quella altrui:

  • No alla regionalizzazione differenziata se prima non si chiariscono le risorse e se non si garantisce la perequazione al 100%;

  • Si al trasferimento di competenze alle regioni a Statuto Speciale;

  • Si all’autonomia per quelle nazioni incluse a forza nello stato italiano e che vantano una loro precisa peculiarità storica, nazionale e linguistica;

  • Si all’inserimento del diritto all’autodeterminazione in Costituzione al posto dell’antico e vetusto articolo V.

Inoltre dovremo fare bene i conti anche noi. Ci sono tanti sindaci convinti di aver stretto la cinghia in questi anni al pari di tutti gli altri sindaci della Repubblica e invece pare che il sacrificio sia stato a senso unico.

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