Manifesto difficile
1 Agosto 2012Red
Continuiamo, riprendendo anche gli interventi già effettuati, la discussione sullo stato del Manifesto. Ci sono arrivati alcuni commenti/considerazioni da parte dei compagni dei circoli del manifesto, in particolare di Bologna, Padova, della Versilia, di Terni e naturalmente del nostro. Anche dai compagni del quotidiano, con varie posizioni. Essi si sommano ai contributi noti nel sito dei compagni bolognesi e nel nostro, da ultimo quelli già editi sull’articolo di Marco Ligas “Il dibattito nel Manifesto“.
Interventi di
Benedetto Vecchi
Claudio Magliulo
Marco D’Eramo
Matteo Bartocci
Marcello Madau
Mauro Chiodarelli
Roberto Verdi
Giuliana Beltrame
Valentino Parlato
Claudio Magliulo
Marco Vulcano
Benedetto Vecchi
Il fatto che le lettere dei circoli non siano state pubblicate mi sembra sbagliato. Veniamo al punto. Le sedi della discussione sul futuro del manifesto sono diverse, perché diversi sono i potenziali protagonisti del riacquisto della testata. Sono i singoli circoli, la redazione (io parlerei di collettivo, ma capisco che questa è un termine problematico da usare, visto lo sfilacciamento attuale: situazione che ho introdotto come nodo problematico nella discussione bolognese); i collaboratori. Come sezione cultura, ad esempio, abbiamo pensato di chiamare i collaboratori della pagina culture ad una discussione a settembre. Continuo a credere che la proposta di una riunione nazionale a Roma dei circoli sia importante, perché ritengo che la discussione sul riacquisto della testata ha bisogno sì di luoghi diversi, ma anche di momenti di confronto ravvicinato. E tuttavia se la discussione rimarrà vincolata alla forma giuridica senza affrontare la crisi del manifesto è discussione accademica, all’interno della quale vedo manifestarsi una confusione tra piano editoriale e piano teorico-editoriale. Il primo è legato ad una contingenza, il secondo si pone in una prospettiva più aderente alla posta in gioco reale: immaginare il manifesto dei prossimi 20-30 anni. Adesso stacco. Sono circa due anni che non faccio vacanze e voglio usare la cassa integrazione almeno per riposarmi. Spero di incontrarvi di persona alla riunione in Versilia.
*il manifesto
Claudio Magliulo
Dico la mia, come ho fatto in modo un po’ disordinato e “a caldo” nell’ultima mail che è girata.
La soluzione al problema, in fin dei conti, deve venire solo dalla redazione, secondo me. I circoli si sono sbracciati in questi mesi per dare apporti, sostenere attivamente le disastrate casse del giornale, far vivere lo spirito del manifesto in mille piccoli luoghi. Abbiamo ipotizzato anche una formula che possa consentire di uscire dalla crisi e ripartire con un nuovo assetto proprietario fatto di lettori, circoli e collettivo della redazione.
Ma la chiave di volta sta nella capacità di immaginare un manifesto nuovo, diverso, un nuovo progetto editoriale che tenga questa testata sul tanto vituperato mercato, che è la sua unica alternativa, visto che il Fondo per l’editoria è moribondo. Se il manifesto raggiungesse di nuovo le 50mila copie non dovremmo più temere fratture e scissioni né dolorose decisioni su chi resta e chi va in cassa integrazione.
Non sono i circoli che devono dire l’ultima. Chi ha fatto il giornale in questi anni, chi lo possiede materialmente, chi rappresenta una storia quarantennale deve prendere atto di questa disponibilità e dare delle risposte. Il processo può essere partecipativo o meno. I circoli sono disponibili con idee e sostegno. Altrimenti diremo la nostra ex post, serenamente. Però un progetto per un manifesto 2.0 lo si vuole fare o no? Tempus fugit.
Marco D’Eramo
Caro Mauro e cari compagni tutti del circolo del manifesto di Bologna,
ho letto i vostri interventi che mi paiono utili e benvenuti anche quando non sono d’accordo e questo vostro messaggio e-mail che trovo più che ragionevole. Poiché come sapete io non lavoro in redazione e per di più sono appena rientrato dalle vacanze, ho aspettato anch’io di leggere la (o le) risposta(e) che la redazione avrebbe dato alle vostre più che legittime domande. Con mio grande sconcerto, i giorni sono passati senza che una risposta pubblica fosse data a interrogativi inaggirabili, e più i giorni passavano e più in me cresceva l’imbarazzo per un silenzo che all’inizio poteva essere semplice sciatteria (a cui la nostra condizione di vita hobbesiana ci ha sfortunatamente abituati), ma a poco a poco diventava maleducazione pura e semplice.
Di solito si dice che chi tace acconsente, qui mi sembra che ciò di cui questo silenzio è assenso è lo staccare la spina all’accanimento terapeutico del nostro giornale: mi pare difficile interpretarlo in un altro modo. Non posso dirvi nulla di più, oltre al fatto che mi vergogno per il comportamento dei miei compagni (non sono ancora arrivato all’obbrobrio di chiamarli “colleghi”, come qualcuno fa).
Se pensate che valga la pena di pubblicare queste mie poche righe sul vostro sito, avete il mio assenso (non silente).
Con solidarietà, Marco d’Eramo
*il manifesto
Matteo Bartocci
E’ fallita la cooperativa ma è fallito anche il modello della Spa (azionariato diffuso del giornale con un socio forte, la coop appunto) lanciato vent’anni fa.
Riflessioni in proposito? Idee perché ciò non accada più e non si illudano ancora una volta i compagni?
E senza “socio forte”, con un azionariato veramente diffuso, chi decide cosa? Si viene a Roma una volta ogni tanto? Si fanno delle liste locali una testa un voto con un parlamentino centrale? Un’assemblea annuale sulle grandi strategie politiche ed editoriali e poi chi si è visto si è visto? Si delega un “rappresentante” interno per ogni realtà organizzata sul territorio?
Benedetto ha ragione: qui tutti (dentro e fuori la redazione) lavoriamo per il manifesto. L’unica cosa che temo sono le possibili strumentalizzazioni di chi, in buona fede e a fin di bene, è preoccupato (come tutti i redattori e i poligrafici) per il futuro del giornale. Il resto sono chiacchiere da bar o mini polemiche da assemblea (virtuale), tanto feroci quanto ineffettuali e autoreferenziali.
Vi ricordo che i circoli del manifesto sono solo una parte delle nostre relazioni: Sbilanciamoci, Antigone, Fuori Luogo, perfino Slow Food o la Fiom non sono, a modo loro, dei “circoli” del manifesto? Che ruolo vedete per queste realtà con cui lavoriamo da anni?
*il manifesto
Marcello Madau
Che la discussione si muova è fatto positivo, spero non tardivo. Fra le difficoltà, diverse, la più aspra ed interessante la forma del giornale (se non falliremo).
Non so di modelli: ma più o meno capisco se rappresentano una forma politica democratica. E’ noto come la preferenza di molti – di tutti i Circoli – vada ad un ‘manifesto’ bene comune’ della relativa comunità di sinistra (anche con il segno ‘quotidiano comunista’) e che ad essa appartenga. E’ per fortuna ampia, nessun circolo ha mai pensato di esaurirla (spero nessuna redazione). Vi sono i soggetti elencati da Bartocci, e molti altri. Con ruolo fondamentale se parteciperanno attivamente al progetto. (A margine: non tutti gli iscritti a Slow Food, o a Fiom, sono del manifesto, fatto che al contrario caratterizza i ‘Circoli’. Spero che la frase di Bartocci non serva, +o- inconsciamente, a respingere l’idea di un giornale più ampio. Non amiamo le chiacchiere da bar, ma non sono meglio quelle da club esclusivo).
Che almeno queste difficoltà siano superate, come il pregiudizio che i circoli vogliano ‘rappresentanza’. Al giornale ‘bene comune’ servono giornalisti non improvvisati: ma la modalità dell’approccio ai territori non sempre è buona. Talora centralistica, intervenendo su di essi – a volte come viaggiatori ottocenteschi – senza parlare coi compagni. La capacità di ascolto può costruire un rapporto diverso, evitare qualche cantonata. Magari il calo delle vendite dipende anche dalla lontananza dai territori.
*Circolo del manifesto Sardegna
Mauro Chiodarelli
Suscita quanto meno stupore, che all’interno di un collettivo che si vorrebbe nell’alveo della cultura comunista, anche se eretica, c’è chi si oppone alla ipotesi di una proprietà collettiva della testata, che veda come protagonisti i lettori/sostenitori de il manifesto. Eppure, se oggi la testata rischia di passare in mani ignote, è proprio per questa mancanza.
Vediamo i fatti. La cooperativa che confeziona il giornale a causa del pesante debito accumulato, oltre 10 milioni di euro, entra in liquidazione coatta. La cooperativa è proprietaria del 78% delle azioni della manifesto Spa, che possiede la testata; la rimanente quota del 22% è costituita dai soci sostenitori. Tra le azioni messe in atto dai liquidatori vi è il subentro nella Spa, in luogo della cooperativa, che, chiaramente, vedono nella vendita della testata la possibilità di drenare denaro per la copertura, almeno parziale, dei debiti accumulati dalla cooperativa stessa. Quindi se la testata fosse in mano ad un soggetto non riconducibile alla cooperativa, non correrebbe nessun pericolo.
I circoli propongono una proprietà collettiva della testata sul modello della «Taz» di Berlino, 11.000 soci, con un obiettivo di 5/6.000 soci che possono acquistare 1 o più azioni, anche a rate, però con il principio una testa un voto.
La testata sarebbe poi affittata alla nuova cooperativa che si formerà dopo la liquidazione dell’attuale (non dimentichiamo che la «Taz» per la sua forma societaria si è ispirata a il manifesto delle origini, ed è costantemente in crescita di soci). Si tratterebbe per i soci sostenitori di un nuovo consistente impegno economico, ancora più pesante in considerazione delle difficoltà economiche che giornalmente gravano sulle spalle della base dei lettori del giornale, ma che avrebbe un senso ed un valore più vero di quello che non è stata l’avventura della Spa.
Sempre dal giornale, qualcuno ci fa sapere che dai lettori vuole solo consigli, perché dei loro soldi non sa che farsene. Come se dei consigli se ne fosse fatto qualcosa. E’ una posizione alquanto strana, considerate le ripetute volte in cui i milioni di euro, o i miliardi di lire, sborsate dai lettori hanno salvato il giornale dalla chiusura. Ma non è una posizione originale, il copyright spetta a Marchionne quando si è riferito allo stato italiano, soprassedendo sui fiumi di denaro che nel tempo hanno salvato la Fiat.
Premesso che testata e cooperativa editoriale (coloro che materialmente confezionano il giornale) sono due cose separate, e che anche la nuova legge sull’editoria non pone ostacoli a questa divisione (comma 7 bis «qualora dette cooperative subentrino al contratto di cessione in uso»), quale potrebbe essere l’alternativa ad una proprietà collettiva delle testata? 1) La testata se la compra lo squalo di turno (con quale progetto speculativo?) 2) La testata se la compra la nuova cooperativa editoriale (come?)
3) La testata se la comprano insieme la cooperativa editoriale ed un pezzo di «borghesia illuminata» (con quali percentuali societarie?).
Nel primo caso il manifesto, come lo conosciamo, è morto. Nel secondo caso la possibilità di ritrovarsi punto e a capo è più che realistica. La nuova cooperativa nascerebbe già con un indebitamento legato all’acquisto della testata. Nel terzo caso, ammesso e non concesso che soci esterni alla cooperativa partecipino in forma minoritaria, chi farebbe e cosa sarebbe questo giornale? E sì perché la terza ipotesi presuppone la permanenza di una sola delle anime del giornale, quella che si è trovata i finanziatori esterni. (Permettetemi un inciso; la battaglia, giusta, di tutelare i posti di lavoro di tutta la cooperativa, come si coniuga con questa ultima ipotesi, ma anche con la precedente, visto che anche Angelo Mastrandrea ammette che un giornale con queste vendite presuppone un corpo redazionale di 30/35 unità?).
Per quale motivo l’idea di una testata di proprietà di lettori/sostenitori trova opposizioni all’interno del giornale? Si teme una limitazione di autonomia? Si teme di doversi confrontare con i lettori in maniera più stringente di quanto accade ora? Si teme che i 5/6000 soci possano ritirare l’affitto della testata alla cooperativa editoriale?
Il primo è un problema inesistente. Gli altri due invece sono problemi di ordine politico, ma un quotidiano che si vuole comunista che ne abbia timore, forse è qualcosa d’altro.
*Circolo del manifesto di Bologna
Roberto Verdi
Sono convinto che, dopo la discussione, il confronto, nell’assemblea con la redazione del 7 luglio a Bologna, e leggendo il contributo di Mauro Chiodarelli (sul manifesto di ieri, ndr), contributo che condivido, si omettono queste questioni. La prima: ho l’impressione che il collettivo manifesto non si sente più collettivo nel senso di proprietà collettiva e penso inoltre che queste parole abbiano perso di significato e oggi siano di difficile declinazione nell’agire quotidiano. Se ne sente un bisogno, forse, ma non su questo e non c’è espressione e dichiarazione. Timori di confronto? Quindi quando Benedetto Vecchi parla di «recupero di sovranità» è un modo per dire che ognuno deve prendere in mano il proprio destino, e di conseguenza quel destino? Il che non è poco. Essendo i fondatori del collettivo usciti, non è chiaro che rapporto ci sia tra coloro che oggi ci sono, sia con la proprietà che con il proprio lavoro; che ho l’impressione sia di tipo individualistico, come oggi può essere declinato. Certo, la residua e attuale organizzazione del lavoro dovrebbe essere utile a qualcosa, ma anche qui si sente uno «sfilacciamento». Non voglio con questo fare nessun processo alle intenzioni, segnalo una mancanza, una mancanza per tutti di dibattito e confronto. La seconda è che questi «timori» o «incapacità» nei confronti di una proprietà collettiva, posta non chiaramente durante l’incontro, ma «lasciata intendere» (anche questo: perché lasciata intendere? Se ne può discutere) sia piuttosto il «non saper come fare» o anche il «non voler cominciare» qualcosa che non si sa come andrà a finire. Quindi si agisce per piccoli passi o guardando il proprio destino personale. Questo è un rispecchiamento, così si è, non tutti e non in assoluto, ma tendenzialmente dice molto.
Certo, forse calcoli individuali, anche legittimi, forse personalismi, o salvare il proprio stipendio o quello che volete, ma non sono gli unici e forse se tra noi circoli e aderenti ai circoli, come sono convinto, siamo in grado di attivare un metodo minimo di comunicazione condivisa e un progetto, penso che a Pietrasanta, l’ordine del giorno, dovrebbe essere se si riesce a costituire il gruppo che incomincia a pensare e a realizzare la proprietà dei lettori/editori sul modello «Taz» (che a questo punto ritrasferisce al manifesto ciò che nel passato ha utilizzato per la sua riflessione interna per il proseguimento del progetto politico/editoriale.
Leggendo il manifesto in questi giorni confermo un peggioramento del giornale. Ma sapendo come è realizzato (in una stanza), con quante persone (7/8) e sopraffatti dall’emergenza, si può capire il perché. Urge però che le persone che lavorano al manifesto discutano del loro destino e ne facciano dibattito pubblico con altri. Così si può avere una relazione, adeguata all’oggi, tra redazione e una in itinere nascente proprietà editori/lettori.
*Circolo del manifesto di Padova
Giuliana Beltrame
Dopo l’assemblea dei circoli a Bologna, pur nella perplessità generale che alcuni vostri interventi hanno sollevato, siamo ripartiti sperando aveste colto la nostra determinazione ad essere parte attiva nella soluzione dei problemi del giornale e anche la nostra richiesta (fatta senza giri di parole) di trasparenza e pubblicità del dibattito.
Detto in altri termini, è emersa la forte richiesta che: 1) esplicitiate le vostre posizioni e le vostre proposte di uscita dalla crisi (assumendone ovviamente la pater- o mater-nità), così che si possa capire con chiarezza chi sostiene che cosa e perché; 2) dedichiate, come proposto da Parlato, una pagina del giornale per ospitare il dibattito su «il manifesto domani» con le posizioni di lettori, circoli e redazione. (…) È deprecabile che Carlo Lania dica che il contributo finanziario che i lettori hanno garantito in questi anni con notevole fatica, non è così importante, e che conta solo il ruolo di «informatori dai territori» che i Circoli possono avere. Salvo poi verificare che, in occasione di inchieste su territori specifici (il Nord Est), chi scrive non ha alcun interesse a contattare i circoli della zona, che magari potrebbero essere in grado di fornire informazioni o contatti. Sembra che anche questa funzione sia considerata irrilevante. Viene il dubbio che non vi rendiate conto che rischiate di rompere quel rapporto fatto di fiducia e affetto oltre che di interesse politico che ha consentito al manifesto di superare le innumerevoli difficoltà economiche e politiche che hanno attraversato la sua storia. Il manifesto è un patrimonio collettivo, per questo in molti continuiamo a sostenerlo e, malgrado tutto, aspettiamo una seria discussione che individui attraverso quali scelte sarà possibile rilanciarlo.
*Circolo del manifesto di Padova
Valentino Parlato
Cari compagni dei circoli,
ieri e oggi abbiamo pubblicato le vostre lettere e gli interventi (mi scuso del ritardo) al fine di aprire una discussione seria e utile per la salvezza e il rilancio del manifesto.Per questo bisogna guardarsi dalle prese di posizioni facili e dannose; bisogna prendere atto della realtà.
L’attuale redazione, della quale sono responsabilmente compartecipe, è certamente criticabile come tutti, però ha l’innegabile merito di aver tenuto in vita questo giornale per più di 41 anni, con sospensione degli stipendi (particolarmente bassi) e rischio di fallimento e disoccupazione.
Certo, c’è stato il vostro aiuto, il vostro e di tutti gli altri affezionati lettori, ma nelle stanze di via Tomacelli prima e di via Bargoni oggi, la vita è stata particolarmente difficile per tutti noi. Abbiamo resistito e non vogliamo mollare. Per questo alcune critiche alla redazione sono ingiustificate e dannose. Tra di noi – se siamo del manifesto – ci deve essere più reciproca fiducia e più rispetto.
Sono per la democratica proprietà collettiva, ma appunto democratica e senza appropriazioni ingiustificate. I circoli del manifesto sono circoli del manifesto con tutti i titoli, ma non possono appropriarsi dell’uso della testata, danneggiando l’impresa generale, nella quale la testata è, ovviamente, solo del quotidiano.
Dobbiamo puntare a una proprietà collettiva, ma a una proprietà (scusate il bisticcio) democratica nella quale una funzione hanno i circoli e una funzione ha la redazione.
Siamo impegnati in una importante impresa comune: far rinascere una forza di sinistra anticapitalista, in una crisi epocale del capitalismo, dell’Europa e anche dell’Italia. E, soprattutto, della antica e gloriosa classe operaia, che oggi è oggetto della lotta di classe portata avanti dal capitalismo internazionale e dai padroni nostrani.
Carissimi, la situazione è molto seria e grave. Teniamoci uniti. Concordiamo le iniziative. Oggi, non solo per il manifesto ma anche per l’Italia, è decisivo rafforzare la nostra unità e resistere. Resistere per ricominciare la lotta per uscire dal capitalismo, che è in crisi, ma colpisce innanzitutto il mondo del lavoro e la democrazia.
Uniti si resiste e si può anche vincere. E questo vincere – consentitemi – lo dico pensando soprattutto ai giovani. Alla mia età pensare di vincere è proprio difficile.
Un abbraccio a tutte e tutti.
*il manifesto
Claudio Magliulo
Penso che i contributi di Mauro Chiodarelli e di Roberto Verdi colgano nel segno. C’è solo un problema. Come si fa ad organizzare un gruppo che progetta la costituzione di una cooperativa stile «Taz» se non siamo sicuri che i membri della redazione siano d’accordo? Ho espresso il mio punto di vista durante l’assemblea, per quanto consentito dal mio ruolo di mediatore. Resto dell’idea che senza un piano serio – strutturato e informato (vale a dire basato su indagini di mercato e calcoli economici reali) per ripensare non solo il giornale ma l’intero progetto editoriale compreso sito, Alias e vari inserti-, e una discussione aperta – all’interno della redazione e poi con tutti i circoli e i simpatizzanti, in cui emerga una chiara linea d’azione condivisa-, il nostro sia tutto tempo buttato.
Non sono pochi i giornalisti del manifesto che stanno allontanandosi giustamente dalla redazione, perché in qualche modo bisogna campare e non tutti hanno rendite su cui contare. Molti altri si fanno vivi poco e male, e non si può fare un giornale in queste condizioni. Allora mi chiedo che senso abbia accanirsi. Il manifesto ha perso molti treni e ne sta perdendo altri mentre ci scriviamo. Nonostante la risibilità dell’operazione di Telese, non dubito che il suo Pubblico, in uscita a Settembre, eroderà ulteriormente la readership del manifesto. E’ tempo di decidersi. Invece di baloccarsi su quanti posti di lavoro si possano salvare, il tema è come fare ad aumentare le vendite per salvarli tutti, potendo. Senza questo, anche i 34 «salvati» finiranno presto nelle condizioni dei «sommersi». E uso volutamente un parallelo forte, perché l’impressione dolorosa che ricavo dall’atteggiamento della redazione è che, in buona fede, stiano andando dritti contro un muro perché non riescono a girare il volante. Però noi più che insistere, fare proposte, lanciare idee e dare disponibilità, non possiamo fare. Nessun giornale, che io sappia, ha mai potuto contare su un gruppo così accanito di sostenitori. Se questo nemmeno è sufficiente a smuovere la redazione dall’immobilità, penso che allora resti solo da assistere ad un lento inesorabile declino pilotato dai tecnici.
Infine una provocazione: siamo sicuri che con 16 milioni di euro di debiti non convenga farla fallire questa cooperativa? e ancora: siamo sicuri che ci sia qualcuno che vorrà acquistare la testata? Forse invece di tentare l’improba impresa di raccogliere alcuni milioni di euro per ricomprare la testata (dopodiché restano anche i soldi per l’ordinaria amministrazione!) forse si potrebbe pensare di raccoglierli per fare un giornale nuovo, che rinasca dalle ceneri del manifesto. Il Fatto Quotidiano (che può non piacere, a me non piace, ma è un grande esempio di organizzazione dell’impresa-giornale), con 600mila euro di capitale iniziale ha fatto partire una macchina estremamente efficiente. I principi sono noti, li ha teorizzati Giorgio Poidomani, all’epoca amministratore delegato, in uscita da l’Unità. 600mila euro e 12 giornalisti. nel giro di un anno sono triplicati e hanno generato 35mila abbonamenti e circa 70mila vendite in edicola al giorno. Senza parlare di futuro non si risolve il nodo del presente. Senza affrontare l’essenza del manifesto, che è un collettivo politico ma esiste in quanto giornale che va in edicola, non si esce dal tunnel.
*Circolo del manifesto di Bologna
Marco Vulcano
Qualunque sia il ruolo che i circoli de il manifesto possano e debbano ricoprire – e il dibattito su questo, come dimostra l’assemblea nazionale del 7 luglio a Bologna, è tutt’altro che concluso – è indubbio che siamo di fronte a una accanita rete di lettori organizzati che intende resistere sempre e comunque. Evidentemente il patrimonio collettivo rappresentato da questo giornale, fatto di dissonanze, voci fuori dal coro e tante battaglie – anche se in buona parte perse – va ben oltre il mercato e l’equilibrio di bilancio.
Il circolo di Terni ha invitato circa un mese fa Tommaso Di Francesco e Alessandro Portelli a discutere del rapporto tra la sinistra e la guerra. Nonostante il caldo torrido della conca ternana, l’iniziativa ha registrato una buona affluenza, soprattutto di giovani; quelli che, ha evidenziato Portelli, «in vita loro non hanno mai conosciuto un periodo di pace e hanno da sempre il rumore bianco della guerra come sottofondo». Tanti i temi emersi, dall’assuefazione alla guerra, entrata nella normalità, all’impossibilità di un capitalismo non armato, fino all’emblematico episodio di Luigi Trastulli, l’operaio delle acciaierie di Terni ucciso nel 1949 mentre manifestava contro la Nato, che la memoria collettiva cittadina ricorda, invece, assassinato in una successiva rivolta operaia. «Se è impossibile ricordare che Trastulli è morto per opporsi alla Nato – afferma Portelli – è perché in quegli anni l’opposizione alla Nato era diventata impossibile. La Guerra Fredda trasforma l’atteggiamento verso la Nato e la memoria di Trastulli». «Eppure – ha aggiunto Di Francesco – nell’operaio delle acciaierie che si batte contro la nascita di un organismo di guerra c’è una politicità che andrebbe recuperata. Se oggi ci fossero tanti operai a battersi contro l’acquisto degli F-35 da parte del governo, io sarei contento. La questione fondamentale è come riportare il tema della guerra al centro dell’interesse collettivo, perché la guerra costa. Pensare un’economia disarmata vuol dire pensare al futuro, costruire un’alternativa non ideale, ma materialissima». E bisogna cominciare subito.
*Circolo del manifesto di Terni