Città future

16 Giugno 2011

Marcello Madau

La vittoria nei referendum mi ha dato una felicità molto particolare, delicata, basata sulla percezione di una solidarietà che ci ha unito, e che ha vinto nella riscoperta della parola ‘comune’, con tutte le sue declinazioni ed estensioni (anche quelle ‘proibite’). Una parola che ha ricominciato a farsi politica.
E questa felicità, che pure intanto ci ha collegato, è quel molto ancora poco. Perché il bene comune è una scommessa difficile, un’articolazione complessa: attorno ai nostri territori liberati (o almeno così per ora li pensiamo non più come dimensione impossibile) dagli avvoltoi delle privatizzazioni e da quelli pronti a far soldi rendendoci radioattivi per sempre, galleggiano i migranti morti nel mediterraneo bene non comune, e le navi della NATO pronte a bombardare la favolosa Leptis Magna.
Siamo capaci di non riconoscere i veri eroi nei divorati dai pesci fra la Sirte e Trinacria, di credere eroi mercenari e truppe d’invasione, di trasformare i dittatori in eroi per altri disperati.
I barconi continuano ad arrivare, a riempirli di umanità dolente è il desiderio di un’altra vita nei cuori di milioni e milioni di diseredati.
La destra un po’ di ragione ce l’ha quando dice: avete vinto, ma qual è il vostro programma? Naturalmente la domanda è pelosa, perché la destra non ha un programma ma solo una prolungata, endemica azione di tutela dei vari e poco limpidi potentati che la esprimono. Pur tuttavia sappiamo che a sinistra il programma per la costruzione di una società democratica ed egualitaria non si evidenzia.
(I cattivi pensieri, come le formiche mentali di Dino Buzzati nei ‘Miracoli di Val Morel’, mi ‘transitano’ il cervello: perché non la smettiamo con i pannicelli caldi e non pensiamo ad una nuova città? A scegliere un terreno, senza il suggerimento che l’oracolo di Delfi faceva ai suoi futuri migranti e con tutte le migliori regole. Una città da costruire assieme, urbanisticamente sociale, inclusiva ed aperta, ad economia ‘verde’, che parta da subito con ‘quote rosa e azzurre’ condivise, magari senza necessità di stabilirle. Un capitolo speciale per un nuovo PPR).

Ogni tanto ci mettiamo a studiare o a fare delle fabbriche: prima le faceva Prodi, poi le ha fatte Nichi. Con varia prevalenza del capo-reparto o dei consigli. Le lavorazioni, anche se non sempre appaiono, talora sono belle. Generalmente in grado di migliorare e rendere meno brutali le produzioni del liberismo.
Certo, va bene se i prodotti migliorano e soddisfano più consumatori (in attesa di poter parlare liberamente di termini che sembrano concettualmente espulsi, relegati alla damnatio o all’invettiva, come la costruzione di una società socialista – magari, ancora peggio, una prospettiva comunista -, forse il centrosinistra riuscirà, sempre per usare i classici concetti, ad approdare ad una moderata costruzione socialdemocratica)….
Ma ho l’impressione che le vere fabbriche le stiamo scoprendo ‘all’aperto’: sono i beni comuni, tradizionali, globali, ‘new commons’. Categorie all’interno delle quali sembrano però mancare gli uomini…
…anch’essi all’aperto, che muoiono in mare, o cercano di scappare dai lager. Le nostre piccole Guantanamo da americani mal riusciti: i CIE, Centri di identificazione ed espulsione per immigrati (un nome da paura).

Mi hanno avvertito da sempre, genitori, bravi maestri e dirigenti di partito, che l’utopia è pericolosa, che bisogna poter governare e soprattutto che governando bisogna necessariamente mediare. Soprattutto, non svegliare il can che dorme: ecco (speculare all’estremismo che un saggio russo chiamò ‘malattia infantile del comunismo’) una delle radici delle nostre sconfitte. La bicamerale di Massimo D’Alema è figlia minore e meno istruita del compromesso storico di Enrico Berlinguer nato per la paura del Cile, dove il cane si era svegliato.
Torniamo al ragionamento iniziale: devo impormelo perché l’andamento è tortuoso, ma se ne ho colpa invoco come attenuanti non generiche la compresenza di tanti fattori e suggestioni che l’ondata della pratica pre-referendaria ha riportato sulla riva, che attendono ancora un’accurata osservazione. E intanto questo numero deve uscire e sono per giunta di turno all’editing.
Qual è il programma della sinistra rispetto alle moltitudini dei senza lavoro e soprattutto a quelle che con flusso costante e inarrestabile arrivano? CPT a misura d’uomo? Impronte digitali per tutti? L’aggiornamento della Turco-Napolitano che preannunciava la Bossi-Fini? Diritto di cittadinanza senza città?
Le fabbriche di Prodi e Nichi offriranno pure una narrazione attenta, sociale, ma alla fine costruiranno un programma dove il poco, ad onta della intuizione gucciniana, sarà ancora molto, e pur sempre poco. Nella sostanza disperato, perché le nostre città e i nostri luoghi possono – soprattutto nell’affettività della gente (non di tutta) – ‘solo’ accogliere. E qua si pone qualcosa di più che un principio di accoglienza.
Allora l’utopia (mi espongo volentieri alla critica, e sarò disposto ad auto-accoglierla trasformandola in auto-critica) riprende a sussurrare nella mia mente: perché non cercare luoghi per costruire una e più nuove città? Oppure le nuove idee di insediamento devono esclusivamente andare dalla città fascista alla Milano 2 alla (presunta) new town aquilana che l’avvocato Ghedini, in un memorabile Anno Zero, presentò con un rilievo grafico quando le scosse del terremoto non si erano ancora placate?
Osservo anche che i nuovi insediamenti caratterizzano lungo i secoli o forse i millenni i mutamenti storici profondi, e noi stiamo vivendo uno di questi. Dobbiamo quindi andare per aggiustamenti e razionalizzazioni dell’esistente – sul quale certamente bisogna lavorare e lottare – senza cercare di ‘iniziare daccapo’ ‘ricominciando da tre’?.
Le costruzioni che penso sono certamente e smaccatamente pionieristiche, ma da fare subito con le nostre leggi migliori per l’ambiente e l’esistenza. Luoghi nuovi da edificare assieme per dare vera cittadinanza alla gente che la cerca per vivere e non morire.
Perché la comunità internazionale che ha dato una terra ad un popolo massacrato nei campi di concentramento costruendo uno Stato inesistente, che non reagisce ai nuovi insediamenti sulla pelle di quelli che avevano la loro terra, non potrebbe riconoscere luoghi ai popoli in fuga massacrati dal capitalismo coloniale, non meno che dai campi hitleriani?
Forse si potrebbero anche chiamare città future. Un programma di sinistra oggi irrealizzabile, almeno parte di quello nuovo ancora da costruire. Una proposta da un territorio che ha spazio non per ospitare centrali nucleari ma esseri umani.

3 Commenti a “Città future”

  1. Giulio Cherchi scrive:

    Il compromesso storico non nasce con il Cile. Viene da Togliatti. La riflessione sull’incontro delle 3 grandi masse popolari almeno da Gramsci.
    La riduzione del pensiero di Berlinguer alla sola questione di mani pulite, staccandolo completamente dalla storia del Pci, incomincia a diventare fastidiosa. E’ falsa coscienza, e come tale va combattuta.
    Ragionando poi di consumatori, non si fa neanche socialdemocrazia. Si fa postdemocrazia.
    Vengo da una scuola che ci ha insegnato che l’uomo è produttore di idee e di cose, primariamente, e su questo si fondano i suoi diritti. L’antropologia che viene proposta, fatta di un uomo completamente integrato, che ha solo bisogno di preservare dei beni e consumare con intelligenza, è un’antropologia che non considera la profonda irriducibilità delle tensioni umane contro la natura, e il suo profondo bisogno di cambiarla.

  2. Marcello Madau scrive:

    Caro Cherchi, ogni dirigente comunista serio, e certamente Enrico Berlinguer lo era, ha radici precedenti. Perché limitarsi a Togliatti e Gramsci? Potrei dire che il compromesso storico nasce da Lenin, a cui acutamente fa riferimento Berlinguer in “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. Alleanze sociali e schieramenti politici”, del 12 ottobre 1973, uno dei suoi tre fondamentali articoli apparsi su ‘Rinascita’ in quell’anno: data che funge da snodo decisivo della scelta politica che ho ricordato e che ha senso ‘in quel preciso momento’. E ne siamo ancora molto condizionati. Con una non piccola differenza: Berlinguer era un dirigente comunista, i dirigenti PD di oggi no. Hanno paura della destra senza il coraggio e la coerenza comunista. Si spostano perciò a destra, imbarcando padroni e talora attaccando i lavoratori. Ma sono tre articoli che sicuramente conosce. Per il resto, sulle ‘riduzioni’ del suo pensiero sono d’accordo e non mi sembra peraltro di aver detto qualcosa del genere.
    Come pure sono d’accordo sulla poca umanità della riduzione a ‘consumo’ delle esperienze umane – che, a seconda delle diverse gradazioni di accesso – sembrano connotare la visione liberista della democrazia. Oggi città nuove basate sui criteri sui quali ho ‘fantasticato’ forse inciderebbero in modo interessante sulla produzione e lo stesso consumo.

  3. Valeria Piasentà scrive:

    Colgo la tua provocazione per dire che sì, soprattutto dopo i risultati referendari occorre passare dalle disquisizioni intorno all’idea di cittadinanza a quelle intorno all’idea di città’. E poco importa se si rischia di sconfinare nell’utopia, in fondo è utopico un popolo che dice: l’acqua è di tutti. Ma attenzione, questo popolo dice molto di più, che tutti i servizi ai cittadini devono essere pubblici. Pensa si fosse allargato il ventaglio dei quesiti: di chi è la scuola? di chi è la città? di chi è la cultura? sembrano domande retoriche ma presuppongono una maturazione sociale (sintomo di una ideologia socialista diffusa?) che la nostra classe dirigente sottovaluta e dentro questa classe dirigente ci sono larghi strati del Pd, ricordiamo le posizioni di Testa sul nucleare, di Renzi sulla gestione della rete idrica, soprattutto la legge Lanzillotta, ecc. Ragionare intorno a quella che Veca chiama utopia calda, significa ragionare intorno a un’idea di giustizia sociale che ha radici profonde e diffuse primariamente nella richiesta di redistribuzione della ricchezza e centralità del lavoro; secondariamente nel nostro stare nel mondo organizzati in polis, nel paesaggio antropizzato della città, con un equo sistema di governo della polis. Non serve investire in un nuovo linguaggio della politica (Vendola) se il linguaggio non è in grado di veicolare idee nuove (o antiche, a seconda dello sguardo). Allora adelante! allarghiamo la discussione sul progetto di città futura.

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