Marrendi su tempus
1 Ottobre 2012Alfonso Stiglitz
Marrendi su tempus potrebbe essere, più o meno, la traduzione in sardo del titolo del Convegno Gardening time / Scavando nel tempo, che si è tenuto a Cambridge nei giorni scorsi. L’università della piovosa città inglese ha voluto, infatti, mettere insieme in una stanza una tribù di archeologi sardi – con qualche imbucato italiano – dediti a scavare nuraghi, con un clan di archeologi scozzesi – anche lì con qualche irlandese e inglese – impegnati a scavare broch, l’apparente equivalente dei nostri nuraghi. Bene, abbiamo imparato tutti che nuraghi e broch non c’entrano niente gli uni con gli altri, separati come sono da oltre mille e passa anni: i nuraghi saldamente ancorati nel secondo millennio a.C. e i broch che esprimono i primi vagiti tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. Una cosa è chiara, quindi, non sono stati gli Shardana a connettere le due piccole patrie.
E allora che fare? Che ci siamo detti in una babele di sardo-inglese contrapposto allo scozzese- inglese? e non so assicurarvi quale fosse il più comprensibile, con la minoranza inglese-irlandese più propensa a capire noi che gli scozzesi; ma qui c’entrano forse più le divisioni culturali dell’area.
Abbiamo ragionato sull’impatto che questi monumenti hanno avuto su chi è venuto dopo e soprattutto se sono e se restano un elemento identitario nei due territori. L’esistenza imponente degli edifici, di entrambe le tipologie, segna il territorio e questo fatto li rende parte integrante del modo di vivere e di percepire se stessi delle popolazioni locali, dal momento della loro costruzione sino a oggi.
Ma, evidentemente, cambia il senso nelle varie epoche. Se, parlando ad esempio dei nuraghi, gli stessi nuragici che li riutilizzano, modificandoli o anche smantellandoli, ne fanno elemento primario della propria identità, qualunque cosa questo termine indichi. Lo sappiamo dalla realizzazione dei modelli di nuraghe in pietra, ceramica e bronzo. Ma soprattutto dall’ inserire questi modelli in strutture cerimoniali (politiche o religiose, ammesso che esistano ambiti realmente separati per i due aspetti). Fin qui nessun problema, sono gli stessi nuragici a segnalarci l’impatto della loro costruzione distintiva. I problemi sorgono in tempi successivi, dei quali mi sono occupato con un intervento dedicato alla percezione e riuso dei nuraghi in età punica e romana. Qui la situazione si complica perché non sempre la consapevolezza del nuraghe ha la stessa pregnanza. Il caso di riutilizzo civile dei nuraghi sono numerosi, qui l’edificio perde la sua essenza ideologica per trasformarsi in qualcosa di utilitaristico: una costruzione ormai monca, uno spazio più o meno utile.
Altro è il caso del riuso dei nuraghi come luoghi di culto (tra gli altri Lugherras, Su Mulinu, Gennamaria, Santa Barbara, Santa Cristina, s’Urachi, Su Nuraxi ecc.). Che ruolo ha l’edificio? Simbolo o mero vano esistente e quindi riutilizzato? La cosa che ci complica la vita è che normalmente tra il momento nuragico e quello del riuso punico c’è un buco di due/tre secoli. In altre parole non c’è continuità. Il caso più interessante è quello di Su Mulinu di Villanovafranca dove, all’interno di una stanza, i nuragici dell’età del Ferro realizzano un altare a forma di modello di nuraghe e tutt’intorno depongono offerte, soprattutto lucerne. Dopo un abbandono di secoli la stanza riprende a essere usata in età punica, l’altare è ancora visibile e tra le offerte ci sono molte lucerne. Domanda: chi sono gli utilizzatori? Percepiscono ancora l’altare come un modello di nuraghe? È una domanda alla quale è difficile rispondere. Una cosa però sembra chiara non c’è continuità, non siamo in presenza di una comunità che resiste sul luogo ancorata al passato. Siamo davanti a un ripopolamento: esso può configurarsi come un ritorno o come un nuovo popolamento. In entrambi i casi si tratta di una nuova comunità che mantiene alcuni tratti derivanti dalla tradizione nuragica e ne assume di nuovi, quelli della tradizione punica e romana. Una comunità, quindi, non passiva, non residuale ma in grado di maneggiare e manipolare, consapevolmente o meno, la realtà contemporanea, molto diversa da quella dei loro antenati.
Paradossalmente in altri luoghi, come a s’Urachi di San Vero Milis, dove non sembra esserci interruzione di popolamento, le caratteristiche del luogo di culto sono più classicamente puniche e meno legate alla tradizione. Questo vuol dire che nella stessa epoca ci sono diverse forme di riutilizzo cultuale che ci fanno pensare più a differenze regionali che non etniche.
Molti sono stati gli interventi, non limitati all’antichità, ma rivolti anche alle percezioni attuali del nuraghe e del broch. Queste costruzioni hanno ancora oggi un ruolo di identità? Un tema tutto da affrontare e studiare. Un esempio ci è stato portato da una giovane ricercatrice italiana, Paola Filippucci, che ha parlato dell’esperienza biellese di una comunità di emigrati che ha ricostruito un (improbabile) nuraghe come manifesto dell’identità sarda, collegandolo a un (altrettanto improbabile) menhir sormontato, anacronisticamente, da una spada nuragica e accostati alla celebrazione della Brigata Sassari. Un esempio di memoria a distanza che, in quanto tale, trasforma la realtà costruendone una nuova, la mappa di una comunità sradicata dai luoghi. Curioso che il nuovo nuraghe (e il menhir) siano stati realizzati in modo estremamente improbabile in una società altamente informatizzata e, quindi, presumibilmente informata sul suo reale aspetto; così come la perdita di memoria sulla Brigata Sassari, nata con intenti razziali per creare carne da macello sacrificabile in quanto sarda e, conseguentemente, inferiore, ci può dare utili stimoli per riflettere sulle trasformazioni della memoria nel tempo.
Il problema che ci si pone, nel caso di Biella, ma anche in quello dei sardi di età punica di Su Mulinu, o della lettura attuale dei brocs scozzesi, è se siamo in presenza di una falsa memoria. Ho l’impressione che il termine “falsa memoria” rischi di essere consolatorio e, come tale, liquidatorio: per chi l’ha costruita quella memoria è reale e come tale va studiata; allo stesso modo i nuraghi e i broch concreti sono una memoria reale. L’importante è non confondere i due piani di realtà e scavare il tempo con i giusti attrezzi da giardinaggio: un entusiamante esercizio all’aria aperta.
PS
Per chi fosse interessato al Convegno può trovare gli abstracts degli interventi in questo sito.
Per il nuraghe di Biella in questo sito.