Mascaras a bisera

1 Maggio 2010

Mamoiada 2004_Madau

Marcello Madau

A Mamoiada le maschere vengono di nuovo allo scoperto. Sfilano nelle prime pagine per ragioni di tutela. Come dalla più antica tradizione, si scuotono grandi campanacci contro gli spiriti maligni, che stavolta sono il furto d’immagine e di identità.
Il sindaco Graziano Deiana, le due associazioni di Mamuthones e Issohadores (Atzeni-Beccòi e Pro Loco) e il Museo della Maschera Mediterranea, uniti, hanno diffidato dall’uso indebito e difforme alla tradizione delle celebri maschere. Hanno depositato la tradizione, attraverso il marchio, presso la Camera di Commercio.
Queste maschere attraversano la memoria territoriale e l’immaginario come poche altre. Esse sono un antico rito di passaggio stagionale, che a gennaio – sta giusto spuntando qualche fiore sui mandorli – percorre in modo beneaugurale il tragitto agro-pastorale fra inverno e primavera.
Si sono continuamente trasformate (lo si vede anche di recente, se si notano le forme facciali e le microvarianti nell’abbigliamento: pantaloni, vecchie giacche e mastruche, la controversa ‘maschera bianca’), ma nella loro morfologia risalgono, almeno per quanto riguarda i Mamuthones, ad epoca precristiana.
La diffusione europea del mascheramento con pelli e campanacci si legge senza soluzione di continuità dalla penisola iberica alla Russia. Non corrisponde né alla cacciata dei Mori né al culto di Dioniso, e perciò non ne dipende. Apparire mascherati di pelli e campanacci è un fenomeno antico e conosciuto dalle civiltà precristiane, perché aspramente condannato dai padri della chiesa.
Questo rito è attraversato da nuove funzioni e significati, prodotti di una società diversa da quelle che l’hanno generato e fatta sviluppare. E da nuove appartenenze: oltre e più che pastori e soprattutto contadini, vi sono studenti, disoccupati, lavoratori autonomi, insegnanti e operai, impiegati e liberi professionisti. In gran parte giovani.
Esso appartiene al passato, ma nel presente è vivo, per certi versi poco museale. Il senso di appartenenza altissimo: gli iscritti alle due associazioni pare che siano almeno cinquecento. Genera un’emozione forte, una magia, l’orgoglio di portare avanti un segno antico, il bisogno di punti di riferimento, una prova di forza interiore ed esteriore e tante altre cose ancora.
Oggi il senso della festa è profondamente modificato e lo spettacolo di massa, entro un’immagine dell’isola che di nuovo si ripropone ai viaggiatori, come nell’Ottocento, selvaggia, arcaica e incontaminata (ma oggi possiamo comunque usare strumenti culturali più forti e allargati), propone un consumo de-calendarizzato, onnivoro e totalizzante.
Nel rilevante processo di commercializzazione delle tradizioni sarde, che compone un ‘folklore di maniera’ consumistico e kitsch alimentato dall’industria del tempo libero (meccanismo tipico e non secondario del nostro capitalismo), la maschera ha un posto di rilievo. Quella dei mamuthones – per la sua attrattività e fama – non solo viene usata in modo commerciale (ricordiamo che l’uso delle immagini dei beni culturali sottoposti a vincolo è sottoposto a particolari normative e autorizzazioni), ma genera altrove un vero miracolo moltiplicatorio.
Succede che non poche delle nuove riscoperte – ci riferiamo ad altri luoghi, ovviamente – siano antichissime, generalmente immediate, e si avvicinino per forma e talora per nome alle più famose. Si riconoscono per una certa bizzarria di maniera, anche strampalata e perché le fonti sono poche, non di rado improvvise e soprattutto non controllabili.
Ancora: molte sfilate sono ormai ‘fuori contesto’. E il mascheramento tradizionale non può non scendere a patti con l’industria dello spettacolo: ma fino a dove? Io spero in modo che la sua oggettiva e radicale trasgressione non venga edulcorata, ridotta a universale digitale. Che la testimonianza del patrimonio storico della quale è portatrice rimanga seria e intransigente.
E’ complicato legare la protezione di un racconto così ricco e complesso a marchio e copyright. Né è agevole stabilire in maniera univoca i concetti di ‘uso difforme alla tradizione’. Ma la reazione di Mamoiada è sacrosanta; il problema sollevato, serissimo, è in realtà: come difendere le tradizioni della Sardegna? Come lo Stato italiano tutela il patrimonio demoantropologico?
Nella tutela dei beni culturali, sistema protettivo molto strutturato su monumenti e manufatti (vincoli diretti e indiretti, apparati normativi e soprintendenze), vi è ancora un peso inadeguato del patrimonio demoantropologico, solo in piccola parte risolvibile nella nuova categoria dei beni identitari.
Qualche Istituto speciale e Soprintendenza Mista, un evoluto sistema di catalogazione ma senza una Direzione generale per i beni demoantropologici, neanche in coabitazione. Giusto un ‘Servizio’ (Servizio III – Tutela del patrimonio storico-artistico ed etnoantropologico) dentro la “Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee”. E’ una carenza grave.
Non vi è quindi legge nazionale in grado di proteggere adeguatamente maschere come i Mamuthones e gli Issohadores e questo non è un problema sardo risolvibile con le categorie del colonialismo: in realtà – se non attraverso le comunità locali – non sono protette a Mamoiada come a Belluno, in Alto Adige o in Sicilia.
Da questo punto di vista il nostro pur avanzato sistema di tutela tradisce un’origine classista ed elabora ancora – nonostante indubbie evoluzioni – una ben più alta protezione per le produzioni artistiche ed architettoniche “di rarità e pregio”, e per quelle frutto delle civiltà scrittorie, rispetto ai contesti culturali immateriali a trasmissione orale.
La reazione di Mamoiada non è corporativa, e va evitato che lo possa diventare. Io non credo che a Mamoiada vogliano privatizzare un rito, ma proteggerlo come bene pubblico comune: che non significa che tutti possano essere mamuthones e issohadores, ma soprattutto che tutti abbiamo il diritto che non diventi come un detersivo e faccia arricchire soprattutto chi non ne condivide la traccia. Nella speranza che la provocazione crei effetti positivi e nell’attesa (da presupporre lunga) che il sistema della tutela si accorga dei beni demoantropologici, non bisogna cessare di mettere in atto e gestire strumenti scientifici sempre più rigorosi, gestiti ‘dal basso’ e proposti su scenari ampi.
Se poi si vuole percorrere la strada e la provocazione del marchio, direi di puntare più in alto, per cambiare la logica letteraria e privata che, nello stesso Ministero dei Beni e delle Attività Culturali appare nella “Direzione Generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore”: chiedendo ad esempio che il servizio di raccordo con la Presidenza del Consiglio dei Ministri “ai fini dello svolgimento delle funzioni di contrasto delle attività illecite lesive della proprietà intellettuale”, tuteli non solo proprietà singole, ma collettive e identitarie. Proponendo lo stesso quesito all’ O.M.P.I., l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale delle Nazioni Unite.

Mamuthones e Issohadores sono un simbolo vero di un pezzo di storia importante della Sardegna e particolare espressione di una storia europea e mediterranea. Per questo la responsabilità che portano i mamoiadini è grande, e l’azione deve essere pari ad essa: se ben sviluppata, può diventare un sonoro ‘non ci sto’ all’omologazione, che vale per altre maschere e va al di là della Sardegna. Questa sarebbe davvero una bella trasgressione.

1 Commento a “Mascaras a bisera”

  1. Raffaele Ballore scrive:

    Nel portale http://www.mamoiada.org (clic su Mamuthones-Issohadores)vi è un sito nel sito dove c’è raccolto tutto ciò che è stato pubblicato di un certa importanza sulle maschere (anche se alcuni saggi sono ripetitivi o solo descrittivi), una vera enciclopedia sulla ns tradizione, maschere in genere e i carnevali. E’vero che manifestazioni come la nostra erano comuni in tutta l’area Mediterranea. Purtroppo abbiamo perso curiose e altrettanto misteriose manifestazioni del nostro folclore locale, come non sono più nell’uso comune moltissime espressioni e parole del nostro lessico mamoiadino. Qualcuno dice che è il prezzo da pagare per il progresso. Crediamo, invece, sia questione di volontà e buon senso: spetta a noi conservare la nostra cultura, la nostra identità e ripristinare gli usi migliori senza però rischiare il ridicolo andando a recuperare tradizioni ormai scomparse dalla viva memoria. Oggi, purtroppo, stiamo assistendo a riesumazioni di manifestazioni di folclore, riti scomparsi da decine di generazioni riproposti in seguito al sentito dire dal nonno che a sua volta lo ha appreso dai racconti dei suoi avi o, addirittura, da scritti del Settecento. Trovo sia un’operazione grottesca, senza senso. L’obbiettivo di ritagliarsi una fetta nel circuito turistico-culturale non deve spingere a simili recuperi. Una memoria storica senza la testimonianza diretta del fatto folclorico offre un patetico spettacolo, degradato e privo di di quella “anima del popolo” che, invece, ha fatto

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