La sinistra dopo i referendum
16 Giugno 2011Mauro Piredda
Ore di giubilo, queste, ma proviamo a partire da una sconfitta. Immaginiamo per un attimo cosa sarebbe successo se ai referendum di Pomigliano e Mirafiori il voto dei lavoratori avesse respinto il ricatto padronale. Con tutta probabilità si sarebbe messo tutto quanto in discussione: dalle forme di lotta alle rivendicazioni sindacali e politiche per impedire ciò che Marchionne minacciava. Bene, ora (pur non dando per finita la partita negli stabilimenti Fiat) proviamo a ragionare in questi termini calandoci nella vittoria dei quattro referendum che segnano una svolta storica (sia per il raggiungimento del quorum, sia per il massiccio voto abrogativo, sia per tutte le mobilitazioni che hanno permesso tale risultato). Qui e ora ci sono le basi per un vero salto qualitativo nella lotta contro la furia privatizzatrice che negli anni ha visto protagonisti sia il centrodestra, sia il centrosinistra. E qui e ora, date le condizioni oggettive favorevoli, si potrà veramente declinare nel concreto un concetto spesso astratto, il “nuovo modello di sviluppo”, legandolo a una prospettiva anticapitalista. Tutto ciò facendo chiarezza sugli obiettivi (in termini di pubblico e di welfare), sui protagonisti (lavoratori “garantiti” e precari, giovani e studenti, piccoli artigiani e mondo delle campagne etc…) e sui programmi che dovranno fare da collante (dalla Fiat all’acqua, passando per Equitalia e tutto il sistema creditizio). La natura programmatica, contenuta in nuce in questi quattro quesiti ha quindi respinto al mittente i tentativi di spoliticizzare la partita. Se il voto amministrativo ha mostrato una forbice tra la voglia di cambiamento radicale e la vittoria (comunque importante) di un rinnovato centrosinistra che guarda sempre più al centro (e quindi alla conservazione), questo esercizio di democrazia diretta va oltre la natura delle forze, Pd in testa, premiate qualche settimana fa. Tali forze, e non è un caso, dapprima non hanno condiviso la raccolta delle firme sull’acqua (cosa contestata perfino dai propri iscritti), poi hanno tentato di ostacolare la possibilità della democrazia diretta ricorrendo a una loro proposta di legge (mentre già dal 2007 giace in Parlamento una legge di iniziativa popolare dal basso sulla gestione pubblica del servizio idrico), allo stesso tempo si sono mostrate possibiliste sull’energia nucleare (votandola anche al Parlamento europeo) e alla fine sono state costrette ad accodarsi a un sentimento che andava oltre la loro stessa ambiguità, senza però aver fatto autocritica su quanto detto e fatto in passato. Anzi, come sostiene Enrico Letta sulle colonne del Corriere della Sera del 14 giugno, “in Parlamento bisognerà cercare soluzioni per portare più efficienza e managerialità nella gestione”. Ovviamente ciò stride con l’ondata referendaria e con la legge di iniziativa popolare già pronta. Ma per Letta tutto ciò “rispetto al terremoto politico, è una questione minore”. Una palese dimostrazione di cosa sia nella realtà l’approccio opportunista. Cavalcare una vittoria svuotandola di contenuti, utilizzarla per prepararne la negazione. Ma che il Pd proceda in tal senso non è un mistero. Discorso a parte meritano le recenti narrazioni vendoliane come quella «che non si può tenere in piedi il vecchio welfare» (sempre sul Corriere). Echi di “terza via” che ci riportano alla mente le vicende dell’acquedotto pugliese. Vendola, all’epoca dello scontro con il presidente Petrella, dichiarò la questione Spa “un problema secondario perchè Spa di proprietà interamente pubblica non rappresenta una minaccia all’acqua pubblica” (noi in Sardegna con Abbanoa Spa sappiamo che non è così). Anche se grazie alle lotte e all’ampiezza del movimento lo stesso Nichi ha cambiato idea facendosi promotore di una legge che sancisce il passaggio dell’acquedotto pugliese dal diritto privato al diritto pubblico, è opportuno dire che questa legge, dopo che è stata lasciata nei meandri delle commissioni regionali per via dell’ostracismo del Pd (doveva essere approvata nei primi 100 giorni di governo), è stata sfacciatamente approvata all’indomani del successo dei SI con degli stravolgimenti (come la possibilità di gestire il servizio idrico integrato da parte di società miste, seppur non nelle attività “strettamente connesse”, oppure l’erogazione gratuita “esclusivamente nei limiti finanziari dell’avanzo netto annuale di gestione”) antitetici allo spirito originario. Domande. E’ questo il nuovo welfare ? E con questi che si vuole fare un nuovo soggetto politico? Altra chiarezza va fatta sulla questione dei beni comuni che Ferrero (Prc/Fds) li propone a base di una nuova costituente politica. E’ assolutamente corretto far si che i comitati che hanno contribuito a tale risultato non vengano smobilitati, così come le loro proposte non vengano deviate verso altri lidi. Impedire che si legiferi senza tenere conto dell’esito referendario e della legge di iniziativa popolare, così come unificare i comitati e i movimenti, le forze politiche e sindacali è quanto di meglio si possa fare per costruire ciò che manca oggi in Italia e in Sardegna. Ma oltre a decidere se stare nelle costituenti dal basso o nelle giunte che stravolgono la volontà dei comitati, la sinistra non può tirarsi indietro dal dibattito presente in alcuni settori del movimento proprio sulla categoria di “beni comuni”, visti come un qualcosa che va aldilà del pubblico e del privato (si veda a riguardo l’ultima fatica di Toni Negri e Michael Hardt intitolata non a caso “Comune, oltre il pubblico e il privato”, oppure la rassegna curata da Paolo Cacciari “La società dei beni comuni” dove questi ultimi “vanno visti come spazi che intersecano il privato e il pubblico”). Davanti al fallimento del pubblico “da carrozzone”, spesso sinonimo di spreco e di inefficienza, e davanti alla palese crisi del capitalismo, la sinistra, dopo questi referendum, deve immergersi in un vero e proprio dibattito trasparente e democratico per pesare tutte queste posizioni (pubblico o comune?) e vedere se il pubblico che vogliamo è esattamente quello indicato dalla legge di iniziativa popolare sull’acqua, ovvero proprietà pubblica e controllo sociale dei lavoratori, degli utenti e delle comunità, e se l’uscita dalla crisi significa mettere in discussione gli assetti produttivi (chi produce, cosa produce, per chi e come, a chi la proprietà) e non solo una più equa distribuzione.
16 Giugno 2011 alle 11:19
condivido pienamente quanto ha scritto Mauro e la chiarezza con cui propone i problemi, senza infingimenti.
Sento solo la necessità di sottolineare, ulteriormente, che quanto abbiamo fatto uscire dalla porta può facilmente rientrare dalla finestra se si pensa che, più volte, Bersani ha sottolineato che i singoli comuni o loro consorsi possono far entrare i privati nella gestione delle distribuzione dell’acqua . Io non vedo ciò come segnale di democrazia; perchè la capacità di corruzione delle multinazionali dell’acqua può superare abbastanza agevolmente il controllo democratico dei cittadini e perchè la gestione mista ha sempre significato : le perdite al pubblico, gli eventuali utili ai privati. Si tratta quindi di stare all’erta e di mettere in rete tutti i casi sospetti presenti e futuri aprendo, al comtempo , un serio dibattito sul problema delle risorse pubbliche da investire, sugli sprechi da eliminare in modo da capire bene cosa si debba fare di ABBANOA
Io vedrei anche la discussione sullo sviluppo delle energie alternative strattamente collegate alla discussione su come raccogliere e utilizzare al meglio l’acqua. Queste brevi considerazioni sottintendono che solo la costituzione di una sinistra anticapitalista disposta a non mettere il cappello sui movimenti mentre contribuisce a rafforzarne la rete può salvarci dall’ennesima operazione di centro, mascherata da centrosinistra.