Mese dei Diritti Umani e difesa della salute
27 Dicembre 2022[Antonello Murgia]
Questo articolo di Antonello Murgia, portavoce del mese dei diritti umani, ha costituito il primo intervento del convegno “Insieme si può” organizzato dall’ASARP il 10 dicembre scorso a conclusione dell’edizione 2022 del Mese dei Diritti Umani.
Sono passati 10 anni da quell’autunno 2012 nel quale con Gisella Trincas e Roberto Loddo decidemmo di dedicare il mese che precede la giornata mondiale dei diritti umani a questa rassegna con la quale intendevamo ricordare e difendere la felice intuizione del secondo dopoguerra che portò nello stesso 1948 all’entrata in vigore della nostra Costituzione e all’approvazione della Dichiarazione Universale da parte dell’ONU.
Abbiamo prodotto i risultati che ci eravamo prefissi? Di sicuro abbiamo realizzato un gran numero di eventi e il tema dei diritti lo abbiamo ampiamente agitato ma, nota dolente, dalla 1a edizione ad oggi l’esigibilità dei diritti fondamentali è senz’altro peggiorata. Lo è non da oggi, da questa maggioranza parlamentare, ma è peggiorata lentamente e progressivamente con gli attacchi alla Costituzione e con i provvedimenti che, anche a Carta formalmente invariata, ne hanno tradito lo spirito.
Pensiamo alle compatibilità economiche con le quali è stato giustificato il grave indebolimento di 2 servizi fondamentali come istruzione e sanità, ai decreti sicurezza e al recente decreto anti-rave, che in realtà è anti-manifestazione, alla legge elettorale che non garantisce l’espressione della volontà dell’elettore, etc. In particolare, il diritto alla salute in questo decennio ha proseguito il declino già realizzato in quello precedente. Il CENSIS 8 giorni fa ha pubblicato il suo 56° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Il 61% degli italiani intervistati ritiene che nei prossimi anni il Servizio sanitario migliorerà anche grazie alle lezioni apprese durante la pandemia.
Per il 93,7% degli italiani la spesa pubblica per la ricerca in salute e sanità è un investimento e non un costo. Il 94,4% si attende che ricerca scientifica e innovazione migliorino l’efficacia delle cure. L’indagine rileva dunque un atteggiamento di fiducia rispetto alla tutela della salute. Ma è questo ciò che possiamo ragionevolmente aspettarci?
Le analisi sui determinanti di salute pubblicate in questi decenni ci dicono che i servizi sanitari incidono in misura ridotta, all’incirca intorno al 15% e che si produce salute in misura decisamente maggiore garantendo un reddito sufficiente e buone condizioni di vita e di lavoro; a parità di altre condizioni anche l’istruzione incide più dell’assistenza sanitaria. Se escludiamo età, sesso ed ereditarietà, i fattori povertà, disoccupazione e basso livello d’istruzione sono quelli per i quali è più urgente intervenire con politiche adeguate, anche ai fini della tutela della salute. Il modello di Dahlgren e Whitehead universalmente adottato per descrivere l’intreccio di determinanti di salute fra individuali e collettivi e fra sanitari e sociali è tanto più importante nelle malattie croniche che, nella nostra società in progressivo invecchiamento, già ora costituiscono circa il 40% del totale.
In queste, l’obiettivo non può essere la guarigione come nelle malattie acute, ma occorre gestire le fasi fra gli episodi acuti: è necessario quindi un approccio integrato del sanitario col sociale e cioè la c.d. costruzione sociale della salute. E’ un concetto sviluppato a partire dagli anni ’60 del secolo scorso partendo dall’intuizione che vari fenomeni (non solo la salute) avevano una dimensione storica e culturale e non solo biologica e pertanto richiedevano un intervento non solo individuale ma anche collettivo, non solo curativo ma anche preventivo, non solo biologico ma anche sociale.
Concetto che tuttavia era già presente nella nostra lungimirante Costituzione che all’art. 32 recita che la salute non è solo fondamentale diritto dell’individuo, ma anche “interesse della collettività”. Le gravi e crescenti disuguaglianze nella salute dei cittadini italiani sono determinate anche dalla mancata integrazione tra sociale e sanitario che lascia alle diseguali possibilità economiche dei singoli il compito di provvedere ai bisogni.
Il luogo dell’integrazione fra il sociale ed il sanitario non può ovviamente essere l’ospedale, ma è il territorio e questo è uno dei motivi che spinsero a programmare la territorializzazione della sanità la quale però è avvenuta solo in piccola parte, come le criticità emerse con la pandemia di Covid hanno drammaticamente evidenziato.
Se a questo aggiungiamo la legge di bilancio 2023 che il governo ha appena inviato alle Camere e che se non verrà modificata nel dibattito parlamentare sottrarrà risorse vitali per gli indigenti, per le politiche del lavoro, per la sanità e per l’istruzione, le preoccupazioni crescono. In particolare, il finanziamento del SSN in rapporto al PIL presenta da tempo un calo progressivo con l’eccezione del biennio pandemico ‘20-’21; per il 2025 è previsto che arrivi al di sotto dei valori prepandemia, nonostante il maggior fabbisogno che questa ha evidenziato.
Sono dati che non inducono all’ottimismo e infatti la Corte dei Conti, in audizione alle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato il 7 dicembre, ha dichiarato «dopo l’emergenza che ha caratterizzato lo scorso triennio si ripropone quindi il gap mai risolto tra le risorse dedicate nel nostro Paese al Sistema Sanitario e quelle dei principali partner europei. Una differenza resa più grave dagli andamenti demografici: già oggi l’Italia è caratterizzata da una quota di popolazione anziana superiore agli altri paesi».
Uno dei problemi sanitari che hanno maggiormente assillato i cittadini è quello dei lunghissimi tempi d’attesa: i dati diffusi dal Ministero della Salute indicano che la maggior parte delle regioni non è ancora tornata ai livelli del 2019, neanche per le prestazioni ospedaliere più urgenti come la cura dei tumori maligni e gli interventi cardio vascolari di classe A. Questo è uno dei motivi per i quali dal mondo sanitario e sindacale veniva richiesto un aumento del finanziamento al sistema che al momento manca.
In conclusione, l’esigibilità dei diritti fondamentali e, segnatamente, di quello alla salute vacilla vistosamente da alcuni decenni e dubito fortemente che possa presentare un’inversione di tendenza sotto la maggioranza di Governo attuale che esprime una cultura autoritaria e liberista per battere la quale è necessario un movimento forte, unitario e possibilmente con una sponda parlamentare che sappia rappresentarlo nelle sedi istituzionali.