Michelangelo Antonioni. Un Maestro non abbastanza ricordato
16 Dicembre 2014Francesca Pili
Maurizio G. De Bonis parla, a ragione, dell’influenza dell’opera antonioniana sulla fotografia (anche contemporanea), sull’arte figurativa, sulla comunicazione visuale, sulla moda.
Tra le tante Arti che dovrebbero essere riconoscenti all’opera del cineasta ferrarese cita anche il cinema.
E – sarà pure superfluo o scontato – è proprio l’influenza di Antonioni sulla Settima Arte ciò su cui vorrei soffermarmi.
Prendiamo Wim Wenders, uno dei registi più stimati del passato e del presente. E parliamo di una delle sue opere più famose, “Paris, Texas”.
Molti (troppi) tra quelli che considerano tale film un Capolavoro e un’opera innovativa, originale, non conoscono (purtroppo) Antonioni e il suo Cinema. E non sanno che, ben prima della loro collaborazione per il film “Al di là delle nuvole”, Wenders era rimasto “folgorato” dal cineasta ferrarese (a proposito del quale, una volta, disse: “è grazie a lui, primo ‘pittore dello schermo’, se sono diventato regista”) e dalla sua opera.
Con “Paris, Texas” volle – probabilmente – fare un tributo, in puro stile manieristico, al suo Maestro. Sono decisamente evidenti, infatti, i richiami al Cinema di Antonioni. Il personaggio di Jane, interpretato dalla Kinski, è omaggio e “summa” dei personaggi femminili antonioniani, specialmente di quelli incarnati dall’inarrivabile Monica Vitti (e, sopra tutti, proprio la “Giuliana” de Il Deserto Rosso).
Il tema del viaggio (anche qui in auto, tra l’altro) come “percorso di crescita” e “acquisizione di consapevolezza” rimanda all’incomparabile Professione: reporter.
L’attenzione ai paesaggi, anzi, di più, il paesaggio come uno dei “protagonisti” indiscussi, al pari degli esseri umani, della narrazione è assai antonioniano; rimanda, in particolare, a L’Avventura.
E, ancora, l’incomunicabilità, l’impossibilità di “stare insieme”, di creare un legame solido, pur amandosi, il rapporto di coppia che si ammala, si logora, scompare, le criticità della vita familiare, il senso di solitudine esistenziale, l’alienazione, sono “materia antonioniana” per antonomasia.
Il personaggio di Travis, interpretato da Harry Dean Stanton, ricorda moltissimo l’Aldo (Steve Cochran) de Il Grido (film sublime, preziosissimo, delicato ma nel contempo crudo, impietoso, icastico – poco conosciuto e/o molto sottovalutato del Maestro ferrarese).
E le lunghe parti piene di silenzio, di un silenzio eloquente, assordante?! Non sono d’ispirazione antonioniana, quelle?!
Impossibile non menzionare, poi, il Cinema asiatico. Le influenze antonioniane sono evidenti, soprattutto, nell’opera del cineasta sud-coreano, Kim Ki-duk [davvero difficile non notare, per esempio, la citazione della partita di tennis con racchette e palline invisibili di Blow-up, nella scena di “Ferro 3” nella quale uno dei protagonisti, Tae-Suk, in cella, gioca una partita a golf con strumenti invisibili; o l’immagine finale di Pietà, che rimanda a “Le montagne incantate” dipinte dall’Artista ferrarese] e in quella del regista cinese Wong Kar-wai [il suo “In the Mood for Love” riprende, citandole, diverse inquadrature/scene/”sfumature emozionali-espressive” de L’Avventura].
Ultimo ma non ultimo, il Cinema russo, con uno dei suoi cineasti più importanti, Andrej Tarkovskij [che, in molti dei suoi film, riprende tematiche, scelte registiche/tecniche, espedienti semiotici/narrativi che furono già antonioniani – tra i tanti: i lunghi piani sequenza de “Lo Specchio”; la citazione dell’ 1+1=1 mutuata in “Nostalghia” direttamente dal Deserto Rosso dell’Artista ferrarese – nel Capolavoro antonioniano, troviamo una difficile e sofferta istanza di riconciliazione – probabilmente irrealizzabile, se non come mero adattamento alla stessa da parte dell’uomo – tra uomo e realtà circostante, tra l’uomo e una realtà circostante sempre più disumanizzata, sempre meno “a misura d’uomo”, sempre più alienante, e una fondamentale istanza di riconciliazione, anch’essa difficile e sofferta – ma, forse, chissà, almeno parzialmente realizzabile -, dell’uomo con se stesso. L’ardua ricerca di auto-accettazione, di auto-pacificazione, di auto-assoluzione di Giuliana, il suo estenuante tentativo di superare la propria nevrosi e la propria alienazione, il suo desiderio di capire e di trovare il proprio “senso” e il proprio “posto” nel mondo, sono espressi nelle frasi della donna incarnata magistralmente dalla Vitti; si parte da “Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca…”, “C’è qualcosa di terribile nella realtà. Ed io non so cos’è. Nessuno me lo dice…” e “Chissà se esiste un posto, nel mondo, in cui si va a stare bene…” per arrivare a: “Devo solo pensare che in fondo tutto quello che mi capita è la mia vita”.
In una scena del film, il figlio di Giuliana/Monica Vitti fa cadere su un vetrino del “Piccolo Chimico” due gocce di un liquido.
“Mamma, quanto fa uno più uno?”, chiede il bambino.
Giuliana: “Che domande! Due!”
Bambino: “Non è vero! Guarda: una e una. Quante sono?”
Giuliana: “Una. È vero. Ma guarda un po’…”
La medesima istanza di riconciliazione che troviamo, seppur con peculiari differenze, in Domenico, il protagonista di “Nostalghia” di Tarkovskij, che sui muri di casa sua scrive:1+1=1 e che, con l’ausilio di una bottiglia d’olio, pronuncia la frase: “una goccia più una goccia fanno una goccia più grande e non due” – elementi, questi, che alludono in modo neanche così ermetico a una concezione olistica della conoscenza, e a una conoscenza olistica della realtà.
Esattamente come ne Il Deserto Rosso, 19 anni prima].
19 Dicembre 2014 alle 20:18
[…] Michelangelo Antonioni. Un Maestro non abbastanza ricordato 16 dicembre 2014 – […]