Monica Di Sisto: Stop TTIP sta dando una grande lezione di democrazia
1 Marzo 2016Roberto Loddo
Monica Di Sisto, giornalista, esperta di commercio internazionale ed economie solidali, è vicepresidente dell’Associazione Fairwatch, organizzazione che si occupa di commercio internazionale e di clima da oltre 10 anni. Insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed è tra le promotrici della campagna nazionale Stop TTIP.
Il TTIP ha l’obbiettivo di abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti rendendo il commercio più fluido tra le due sponde dell’oceano. Quali sono gli aspetti negativi e pericolosi?
Il Trattato di partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic trade and Investment Partnership – TTIP) è stato lanciato nell’estate del 2013 con lo scopo esplicito di liberalizzare il mercato transatlantico di tutti i settori dei prodotti e dei servizi aumentando le possibilità di scambio transatlantico per una mutua convenienza commerciale e regolatoria. In realtà tra Europa e Stati Uniti, a parte pochi settori sensibili, la media delle barriere commerciali – dazi, quote, dogane – è già molto bassa, tanto che gli Usa sono il nostro principale partner commerciale dopo il mercato comunitario. Circa l’80% dei benefici attesi del trattato (modesto, in realtà, perché equivalente a un aumento dello 0,05 del Pil europeo l’anno spalmato sui dieci anni successivi all’approvazione del Trattato da parte del Parlamento europeo e del Congresso Usa) deriverebbe dalla cosiddetta “armonizzazione regolatoria” tra le due sponde dell’Atlantico.
Se a decidere non saranno più i parlamenti e i cittadini, chi deciderà?
Ogni anno un non meglio precisato “Organismo Transatlantico” animato da esperti e rappresentanti non meglio precisati della Commissione Europea e del Ministero del Commercio Usa individuerebbero, su sollecitazione dei Portatori d’interesse del commercio Usa-Ue (e non dei cittadini, dei Parlamenti o degli organismi regolatori), una lista di regole che fanno problema al commercio transatlantico e introdurrebbe delle misure per liberare il commercio da questi ostacoli. Queste indicazioni dovrebbero essere recepite nelle normative comunitarie senza emendamenti, come avviene oggi rispetto alle indicazioni dell’Organizzazione mondiale del Commercio. Ogni regolazione di qualunque livello amministrativo che avesse una qualche influenza, anche secondaria, sul commercio transatlantico, dovrebbe essere notificata all’altra parte prima della sua definitiva approvazione.
Cosa accadrebbe se gli investitori privati si sentissero danneggiati?
Se un investitore privato si sentisse danneggiato da una vecchia o nuova legge, regola, normativa, non dovrebbe scomodarsi a sostenere i propri diritti in un tribunale ordinario, obbligato a tenere conto di tutta la normativa nazionale e comunitaria rilevante, ma potrebbe reclamare i propri diritti presso un arbitrato commerciale dedicato (ISDS o ICS) che, anche nella versione recentemente rivista dalla Commissione, deciderebbe solo alla luce della lettera del trattato. Se lo Stato citato in giudizio volesse conservare la propria normativa in violazione del TTIP, sarebbe chiamata a compensare i mancati guadagni presenti, passati e futuri. E non siamo che ai problemi macroscopici, entrando nei dettagli di quello che non va, a livello economico e di principio, ci sarebbe da scrivere un libro.
E’ possibile che la crisi globale possa aggravarsi insieme all’ineguaglianza sociale e al degrado ambientale?
Stando alla valutazione d’impatto preventiva elaborata dell’istituto di ricerca Ecorys nel 2013 su incarico della Commissione europea , tra le regolazioni che fanno più difficoltà al commercio transatlantico troviamo il principio di precauzione, le misure che proteggono la nostra sicurezza alimentare, l’etichettatura dei prodotti, il marchio CE sugli elettrodomestici, i curricula professionali, la normativa ambientale legata alla riduzione dei rifiuti e delle emissioni, quella di sicurezza del settore chimico (Reach), di sicurezza del lavoratori, le restrizioni all’utilizzo di numerosi pesticidi e conservanti, le limitazioni ai derivati finanziari, addirittura le carte dei servizi dei servizi pubblici e la contrattazione collettiva e tutte quelle normative che, più in generale, non sono riconosciute da una delle due parti dell’Atlantico. Queste normative fanno problema al commercio, costituiscono le cosiddette Barriere non tariffarie perché impediscono ad alcuni prodotti di circolare nel mercato comune oppure si traducono in costi aggiuntivi per i produttori. E’ questo uno dei maggiori pericoli che intravediamo proprio perché potrebbero esplodere come mine in un contesto economico e sociale già messo a dura prova dalla crisi sistemica degli ultimi anni.
La campagna Stop TTIP Italia ha evidenziato il rischio di esclusione di milioni di cittadini e le cittadine dalle decisioni che riguardano le loro prospettive future di vita. Ma quali sono i soggetti che potranno avere vantaggi e opportunità da questo accordo?
E’ difficile dirlo. Chi sta più spingendo per l’approvazione del trattato sono i grandi gruppi transnazionali che hanno tutto l’interesse di sottrarre mercato alle Piccole e medie imprese, che oggi nel mercato europeo rappresentano la stragrande maggioranza degli operatori ma che non possono competere con i costi di produzione stracciati che i big riescono ad imporre grazie alle proprie posizioni dominanti, all’energia a basso costo derivata dal fracking e dai costi del lavoro ridicoli che impongono soprattutto nei Paesi nel Sud. In tempi di crisi un mercato appetitoso da quasi 350 milioni di consumatori come quello europeo, anche se provato da deindustrializzazione e disoccupazione, fa ancora gola
Oltre il TTIP esistono altri negoziati internazionali che consolidano i privilegi delle lobbies economiche più potenti?
Questa deriva noi avevamo cominciato a intravederla con la stessa creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio nel 1995: la creazione di un “club di Paesi” indipendente dal sistema delle nazioni unite, e dotato di un proprio tribunale che ragiona solo sulle ragioni del commercio e decide le controversie tra gli stati membri, ci sembrava già una riduzione grave della democrazia internazionale per ragion di profitto. Poi hanno cominciato a proliferare, anche su spinta della stessa Europa, nuove generazioni di trattati che mettevano addirittura intorno ad un tavolo separato solo alcuni di quei Paesi – penso al Tisa per la liberalizzazione dei servizi, o al Ceta che l’Europa ha sottoscritto con il Canada, ma anche ai DCFTAs che ha imposto a molto dei Paesi della primavera araba in cambio dei fondi degli aiuti umanitari – creando blocchetti di potere per forzare il consenso dei Paesi emergenti su regole a loro spesso del tutto sfavorevoli. E’ chiaro che in quelle sedi, non essendoci nessun Consiglio di sicurezza o nessun luogo che ricapitola al governo politico globale, le regole le fa chi le occupa e pensate che, solo sul TTIP, gli incontri tra Commissione e Big Business rappresentano oltre l’80% del totale delle riunioni che essa ha organizzato lo scorso anno per raccogliere idee e impressioni da esperti, parti interessate e società civile.Sindacati e ambientalisti non arrivano, insieme, al 5%.
Quali alternative possibili può intraprendere l’Europa per cambiare rotta e garantire una giustizia commerciale più equa?
Innanzitutto cominciare a pensarsi come Europa, e non come ad un’accozzaglia di interessi diversi che si fronteggiano senza esclusioni di colpi. Poi utilizzare il mercato interno non come una vacca da mungere, ma come un bacino da proteggere dalle produzioni inquinanti e ad alto contenuto di sfruttamento, sociale ed ambientale. Promuovere una politica del lavoro e della produzione più coordinate, facendo si che i prodotti più inquinanti e dannosi vengano penalizzati, e invece gli investimenti e le produzioni virtuose e ad alto tasso d’occupazione premiate, non deve essere un tabu. La Cina, ad esempio, usa dazi e dogane con grande sapienza per non permettere ai prezzi interni di alzarsi o di scendere troppo. Anche l’India lo fa, e lo fanno, a maggior ragione, gli Stati uniti che tra industria e agricoltura hanno i livelli più alti di sussidi a livello globale e non vi vuole assolutamente rinunciare. Solo l’Europa si affida fideisticamente, e con scarsi risultati, al mantra del libero mercato. Un tempo lo chiamavamo Governo dell’economia, a Seattle come a Genova, lo chiediamo ancora e non possiamo più aspettare.
In Italia si respira un aria di normalizzazione del dissenso. Come si può rompere questo silenzio?
A me, come cittadina, la campagna Stop TTIP sta dando una grande lezione di democrazia agita. Alla piattaforma (www.stop-ttip-italia.net) aderiscono oltre 300 realtà in difesa dell’ambiente, della società civile, del mondo del lavoro che sostengono oltre 50 comitali locali. In Europa la campagna Stop TTIP è presente in tutti i Paesi dell’Unione con piattaforme nazionali che si coordinano attraverso gruppi di lavoro tematici e assemblee che si convocano a margine dei round negoziali e che coordinano la società civile di questa sponda dell’Atlantico con le tante organizzazioni e i sindacati d’oltreoceano, che condividono le nostre preoccupazione.
Quali sono le iniziative più rilevanti in Europa?
La raccolta firme autorganizzata (https://stop-ttip.org/it/) che ha raggiunto il numero di 3 milioni e quasi 400 mila cittadini europei che si sono dichiarati contrari al TTIP. Numero mai raggiunto in nessun’altra iniziativa di raccolta firme europea. A Berlino il 10 ottobre scorso oltre 250mila persone arrivate da tutta Europa sono scese in piazza contro il TTIP. In Italia il 25 novembre scorso simbolicamente le firme sono state consegnate al capo negoziatore Europeo Ignacio Bercero in un faccia a faccia organizzato a Roma presso il ministero dello Sviluppo Economico tra la Campagna e la Commissione ospitato dall’allora vice ministro Carlo Calenda.
Qual è la risposta dei territori e delle città?
Le istanze della campagna sono state recepite a livello locale in Italia con l’approvazione di oltre 40 mozioni e documenti formali d’indirizzo Stop TTIP da parte di Consigli regionali (in Abruzzo, Lombardia, Toscana) e comunali (tra cui Milano, Ancona, Modena, Pescara e tre municipi della Capitale). In tutta Europa è in corso una campagna che chiede alle Autorità locali di dichiararsi “Free TTIP Zones”, e i Comuni di Bruxelles e Barcellona hanno già proceduto in questa direzione. Qui la mappa delle aree https://www.ttip-free-zones.eu/ E per questo abbiamo lanciato una nuova petizione che chiede ai cittadini di spingere i propri amministratori a dichiarare i loro territori #fuoriTTIP (http://www.progressi.org/fuorittip), abbiamo chiesto un incontro alla presidente della Camera Laura Boldrini alla quale abbiamo chiesto di vigilare e di darci maggiori informazioni proprio sulle possibili limitazioni alle libertà costituzionali provocate dal TTIP e nella tarda primavera lanceremo una nuova mobilitazione nazionale. Non ci fermeremo fino a che non ci dimostreranno, carte alla mano, che abbiamo torto.