Un dissenso libero e franco

1 Dicembre 2007

Aldo Natoli

Ricorre in questi giorni l’anniversario della radiazione dei compagni del Manifesto dal Partito Comunista (novembre-dicembre 1969). Per l’occasione pubblichiamo l’intervento di Aldo Natoli al Comitato Centrale che si tenne nell’ottobre dello stesso anno. ‘Il Manifesto è un atto di insubordinazione, un dissenso libero e franco che nasce e vive nel partito’, così diceva Natoli. Non così pensava il gruppo dirigente del Partito Comunista che preferì, anche su pressioni dell’Unione Sovietica, separarsi da compagni ritenuti scomodi. Fu una scelta grave che ridusse la credibilità del partito soprattutto verso l’area che stava alla sua sinistra. Alla radiazione non seguì una ritirata, ci fu al contrario un rilancio della rivista e successivamente la nascita del quotidiano, ancora oggi un punto di riferimento importante per chi intende impegnarsi non solo nella difesa dei valori del movimento operaio ma anche per il loro rilancio.

“Noi, i nuovi comunisti” Ottobre ’69, l’appassionato intervento di Aldo Natoli al comitato centrale del Pci

Il Manifesto è un atto di insubordinazione, un dissenso libero e franco che nasce e vive nel partito
Compagni, per delle ragioni di brevità, pienamente comprensibili a questo punto del dibattito, farò riferimento all’intervento della compagna Rossanda per quanto riguarda la definizione dell’area e dei contenuti del dissenso, il che però non vuole assolutamente dire che fra i compagni del Manifesto sia stata già elaborata ed esista una piattaforma politica coerente e comune, il che vuol dire ancora meno – del resto lo accennava la stessa compagna Rossanda nel suo intervento – che fra di essi esista una sorta di disciplina di gruppo monolitico. Io vorrei piuttosto cercare, sia pure brevemente e quindi forse un po’ sommariamente, di vedere quali sono state e quali sono la natura e le origini del dissenso e vorrei cominciare col dire che questo è un dissenso che è nato all’interno del partito, che è cresciuto insieme con la partecipazione attiva, intensa, con l’impegno che ognuno di noi, io stesso (ma so che questa è l’esperienza anche degli altri compagni), abbiamo fornito in un lungo numero di anni non solo all’attuazione di una linea politica e di una strategia ma anche, nella modestia delle nostre forze, alla sua costruzione, al suo arricchimento: parlo della via italiana al socialismo. Un dissenso che è sorto dall’interno, mentre ognuno di noi difendeva questa linea tutte le volte che era necessario difenderla e confermava il proprio impegno per la sua attuazione. Dico questo perché vi è un problema che è sorto nel corso della discussione già nella V Commissione e poi è ritornato in questo dibattito, e che è quello del nostro atteggiamento verso il patrimonio del partito. Ora, compagni, si farebbe un grave errore se si pensasse che qui vi sono dei compagni i quali custodiscono gelosamente il patrimonio del partito e ci sono altri compagni, invece, che vogliono disfarsi di questo patrimonio, che pensano che bisogna fare tabula rasa di esso, che ritengono che ormai esso non sia altro che zavorra da essere gettata fuori bordo. Mi pare di avere avvertito un po’ questa divisione nella relazione fatta dal compagno Natta, e credo fermamente che si tratti di una forzatura difficilmente accettabile e perfino inverosimile, ove si voglia soltanto esaminare brevemente non dico la nostra biografia, ma il tipo di formazione culturale di ognuno di noi, il tipo di milizia politica che ha caratterizzato il nostro impegno in tutti questi anni. (…) Io penso che non basti custodire il patrimonio (certo bisogna custodirlo) ma non si può farlo, come talvolta accade, come se esso fosse una reliquia; dobbiamo avere in ogni momento la consapevolezza profonda della storicità di questo patrimonio. Questa parola, “storicità”, è intervenuta più volte nel corso della discussione che abbiamo fatto nella V Commissione e l’abbiamo ascoltata anche nel corso di questo dibattito. (…) Tuttavia dobbiamo fare i conti con uno stato d’animo, con un modo di essere, con una consuetudine e con un patriottismo che esistono largamente diffusi nel partito e che di per sé non costituiscono un elemento negativo; con uno stato d’animo di compagni i quali trasaliscono quando si voglia mettere in discussione nei termini che io dicevo il patrimonio del partito; quando, come a me è accaduto di dire durante i lavori della V Commissione, ci si proponga seriamente l’analisi di ciò che è vivo e di ciò che è morto nel patrimonio del partito.
Comprendo che talora scattano dei riflessi di difesa profondamente radicati e temprati nel corso della lotta di classe, i quali talvolta giungono a determinare nella pratica un blocco di quell’analisi, con il risultato finale della prevalenza di un certo conservatorismo, e allora sì, quando questo accade, sorge il pericolo concreto, il rischio di un invecchiamento reale del nostro patrimonio. In sostanza, questo deve essere chiaro fra di noi, che non vi è nessuno che vuole distruggere il patrimonio del partito. Chi volesse far questo farebbe, innanzitutto, un’azione suicida; chi facesse questo rischierebbe di decadere al ruolo di intellettuale sradicato, come già ho sentito dire in questa discussione. Ho trovato nella relazione del compagno Natta altre forzature o incomprensioni; non so effettivamente se si tratti di forzature polemiche, espedienti che – il compagno Natta me lo consentirà – vorrei chiamare ciceroniani, ovvero se si tratti di incomprensione dovuta ad una insufficiente capacità mia o di altri compagni di esprimere fino in fondo quello che pensiamo, quello che sentiamo. Per esempio, quando nella sua relazione Natta dice che si vorrebbe distruggere il contenuto democratico della nostra linea alterando e stravolgendo il nesso tra momento democratico e momento socialista, che ne è poi il tessuto vivo, ancora una volta sembra a me di trovarmi di fronte ad una affermazione nella quale non posso assolutamente riconoscermi, che è in contrasto radicale, profondo, con il modo con cui mi sono formato, con cui sono cresciuto, con l’impegno che ho cercato di fornire negli anni della maturità, al servizio di una linea, alla costruzione di essa, ciò che a me è accaduto di fare per anni in un settore particolarmente qualificato, e cioè sui problemi inerenti alla strategia delle riforme di struttura che sono l’asse della via italiana al socialismo, il terreno su cui si mette alla prova la solidità del nesso fra obiettivi democratici ed avanzata al socialismo, dove il problema che si pone è di organizzare la lotta democratica delle masse per attaccare la struttura dello Stato di classe, le strutture di classe dell’economia, incidere sui rapporti di classe e così mutare il carattere e il contenuto del potere. Per anni abbiamo insieme combattuto su questi temi e, a poco a poco, non poteva non sorgere dentro di noi, accanto al continuato impegno, anche una riflessione critica, una valutazione dei risultati cui giungeva nella sua attuazione questa lotta e quindi anche dei suoi limiti. D’altro canto, questa riflessione critica partiva dalla valutazione dei risultati positivi raggiunti, dallo sviluppo del nostro partito, dalla sua influenza politica crescente, fino a farne la grande e decisiva forza che esso è divenuto in questi anni. Ma non poteva non porsi in questa riflessione – ho detto – anche l’altro aspetto della questione, cioè la ricerca dei limiti di questa politica che io ho creduto di intravvedere nel fatto che a questo grande sviluppo di una forza democratica, eloquentemente espressa nei risultati elettorali, non ha corrisposto un successo dell’azione diretta ad intaccare le strutture delle forze di classe dominanti nel nostro paese. Questa considerazione invita anche a riflettere sulla ripercussione che questo tipo di risultato positivo abbia potuto avere sul carattere del nostro partito, sulle trasformazioni che sono avvenute in esso e sul tipo di rapporto fra il partito e le masse, in primo luogo la classe operaia. Ricordo che io posi questa questione, in una maniera ancora assai sommaria, già prima dell’XI Congresso, proponendo al partito un’ipotesi e una verifica e – ripeto -tutto questo partiva non dalla liquidazione del patrimonio, non da una ricostruzione della storia del partito in una storia di fallimenti ma, al contrario, dalla consapevolezza del grande risultato positivo che aveva fatto del nostro partito il più grande partito comunista che esista nei paesi capitalisti. Poi siamo giunti all’anno 1968. Non mi dilungo sui caratteri della crisi che si è aperta allora non solo in Italia ma anche in altri paesi dell’Europa occidentale. Ricordo che questa crisi fu esaminata, sia pure sommariamente, nelle tesi del XII congresso; i grandi sommovimenti in corso, l’emergere e l’espandersi di grandi lotte di massa: fu sottolineato che si entrava in una fase nuova della lotta di classe in cui il problema del socialismo appariva all’ordine del giorno (così è stato scritto), e in cui altre forze rivoluzionarie autonome si affacciavano alla ribalta e tutto il movimento, in forme varie e diverse, si caratterizzava per una contestazione diretta contro il potere autoritario, capitalista. Noi conoscemmo allora che la nuova situazione poneva delle difficoltà alla nostra egemonia. Era il momento in cui doveva sorgere la domanda se la fase nuova della lotta di classe, fase di avanzata è stato detto alle volte, fase di attacco, altre volte, non segnasse il momento del passaggio dalla lunga guerra di posizione degli anni precedenti ad una fase nuova, di movimento, nella quale il nesso fra il momento democratico e il momento socialista, attenuatosi in quegli anni, non poteva essere pienamente ristabilito. Questa riflessione contiene un attacco alla linea, alla strategia del nostro partito? Io francamente, compagni, non lo credo. Questa riflessione tende a distruggere il contenuto democratico della via italiana al socialismo? Francamente, compagni, mi sembra assolutamente di no. Semmai, ove questa riflessione avesse un qualche fondamento da essa potrebbe risultare una maggiore ricchezza di contenuto per la nostra linea; la strategia delle riforme di struttura, collegandosi con il movimento di contestazione anticapitalistico, acquisterebbe dimensione di massa e diverrebbe, per la prima volta, il terreno reale di lotta per la conquista dal basso di momenti di potere nella produzione, nella società civile, nelle sovrastrutture statali; obiettivi intermedi che esprimono uno spostamento dei rapporti di forza tra le classi e l’apertura di una fase nuova, di transizione, della lotta di classe. (…) Questa questione è affiorata nella nostra discussione, nell’intervento del compagno Ingrao, in quello del compagno Pintor, e in maniera assai vivace e pregnante nell’intervento del compagno Pugno; è la questione del carattere degli obiettivi di potere dal basso che vengono attualmente posti nelle grandi lotte operaie in corso. (…) Se rileggiamo oggi le tesi del XII Congresso, troviamo che la questione della conquista di nuovi momenti o di nuovi organismi di potere dal basso circola largamente in esse, fu uno dei temi di quella discussione, ma si presenta con una doppia faccia: ora i momenti di potere dal basso vengono indicati come meri organi di partecipazione democratica, ora invece sembrano arieggiare a reali, nuovi organismi di potere, sorti dalla lotta, che esprimono un mutamento reale dei rapporti di forza fra le classi e sembrano quindi destinati a ulteriormente dislocare quei rapporti. Si direbbe che ci troviamo di fronte ad una reale ambiguità, la quale è forse l’espressione della incertezza delle indicazione del giudizio sul carattere della crisi apertasi nel 1968, se questa crisi fosse o no il segno dell’inizio di una fase, nuova, di transizione della lotta di classe. Io credo che tale ambiguità e di conseguenza ambivalenza, contenuta già nelle tesi, non fu risolta e superata al XII Congresso. (…) Per quanto riguarda i problemi dell’internazionalismo, della lotta antimperialista e per il socialismo, da che parte siamo io e gli altri compagni del Manifesto? Noi siamo dalla parte del socialismo, dalla parte della lotta antimperialista. D’altro canto abbiamo tutti coscienza dell’attuale profonda crisi del campo socialista e dell’internazionalismo. Abbiamo coscienza che gli esiti attuali del cosiddetto processo di normalizzazione in Cecoslovacchia segnano un fatto involutivo assai grave, che non può rimanere limitato alla Cecoslovacchia, ma inevitabilmente si ripercuote all’interno di tutti i paesi socialisti europei e non può non accentuare il dissenso e la sfiducia verso quei gruppi dirigenti. E’ una situazione assai grave e difficile, il compagno Bufalini lo sottolineava ieri. In queste condizioni, che cosa fare? Non un appello al rovesciamento di quei gruppi, questione che è stata chiarita e corretta ieri: il Manifesto non incita alla rottura, non incita all’antisovietismo. Ma ciò non cambia il giudizio sul fatto che oggi ci troviamo in una situazione in cui una prospettiva positiva, di ripresa dello sviluppo della democrazia socialista in quei paesi, non può non essere collegata ad un cambiamento dei gruppi dirigenti, anche se non è compito nostro indicare tale obiettivo. Né può attenuare la consapevolezza che se è vero che la rottura o la caduta nell’antisovietismo sarebbero gravissimo errore, tuttavia i pericoli di un isolamento del nostro partito, all’interno del campo in cui essi devono collocarsi, non sono affatto inconsistenti o irreali. Credo infatti che noi dobbiamo rimanere sulle posizioni che prendemmo dopo il 21 agosto del 1968; lavorare su quelle posizioni e svilupparle sapendo che è nostro dovere, nei limiti del possibile, aiutare le forze che in Cecoslovacchia e anche altrove lottano per la democrazia socialista, proletaria.Sulla questione molto seria del metodo del rinnovamento nella continuità, nella V Commissione ho notato che tale formula, a lungo andare, può portare anche ad una prevalenza della continuità sul rinnovamento e quindi favorire il consolidarsi di un certo conservatorismo, in definitiva portare appunto ad una continuità prevalente in cui il rinnovamento è in ritardo sulle cose. Ho anche sollevato la questione, parlando poi della storicità delle forme organizzative dei partiti, che la storia stessa dei partiti operai e comunisti dimostra che il rinnovamento non è avvenuto sempre nella continuità, ma che ci sono state delle crisi storiche in cui il rinnovamento è avvenuto anche attraverso dei salti di qualità, delle “rotture”. Riconosco che questa parola provoca dei riflessi di difesa, perché se si pronuncia questa parola si può anche rischiare di far credere che si abbia in mente un progetto preciso, che si voglia ad ogni costo la rottura. Voglio esprimere su questo il mio pensiero in modo più preciso. Io penso, per esempio, che il modo come in questi anni ha funzionato il metodo del centralismo democratico ha finito, almeno in certe situazioni, col diventare un ostacolo, un limite insuperabile allo sviluppo della vita democratica. Non vorrei essere frainteso, compagni. Io parlo del modo come funziona il centralismo democratico. Io non sono contro il centralismo democratico, sono per il centralismo democratico come garanzia dell’unità del partito nell’azione; sono contro il partito organizzato in frazioni, contro la presenza di correnti organizzate all’interno del partito. Il centralismo democratico non realizza ancora un reale equilibrio; una efficace dialettica fra il momento del centralismo e il momento della democrazia di base; ciò che manca è la reale possibilità di una verifica pubblica, a partire dalla base, della linea e della efficacia dei gruppi dirigenti a tutti i livelli; la possibilità di esprimere pubblicamente il dissenso nel momento della discussione, come elemento essenziale per una verifica reale della linea e per il ricambio dei gruppi dirigenti a tutti i livelli. Credo che noi dovremmo ammettere, ferma restando l’unità nell’azione, la liceità di discussione, di elaborazione e di ricerca autonoma anche sui temi politici generali fra l’uno e l’altro congresso. Infine, compagni, vengo alla questione del frazionismo: ci è stato contestato di costituire una frazione, respingo questa accusa. Abbiamo già spiegato in commissione che il discorso del frazionismo è un discorso vecchio, che non ci interessa. Il problema che noi abbiamo cercato di porre – sbagliando se volete – è molto più vasto, tale che il Manifesto non ha potuto che tentare di proporlo, mentre non sarebbe assolutamente in grado di risolverlo; è un problema generale di rinnovamento, di riforma del partito, che può essere affrontato soltanto dal partito, non certo da un gruppo di compagni, magari raccolti intorno ad una rivista. (…) Si dice che avremmo fondato dei circoli di cultura. Compagni, debbo dire che ciò non è vero, noi non abbiamo fondato nessun circolo di cultura in nessuna regione, in nessuna città d’Italia. Si è parlato di attività frazionistica attraverso la raccolta degli abbonamenti o dei rapporti con eventuali collaboratori: francamente, io mi chiedo se questa azione possa configurarsi come un’attività frazionistica. E’ stato detto che abbiamo raccolto mezzi finanziari: compagni, i mezzi finanziari di cui dispone il manifesto provengono esclusivamente dagli abbonamenti. Fino a questo momento questi introiti sono stati sufficienti a permettere un’attività la quale, del resto, è fondata sul lavoro volontario, gratuito, in quanto la collaborazione al manifesto è senza alcun compenso. (…) Infine, e concludo, compagni, a me è sembrato che il nostro sia stato un dibattito molto serio, un dibattito positivo, più positivo di quello che è avvenuto in commissione, dove c’è purtroppo stato un reciproco irrigidimento. Vorrei aggiungere che a questo dibattito a me sembra non corrispondano le conclusioni poste dalla relazione del compagno Natta. Ma indipendentemente da questo, trovo che quelle conclusioni possono divenire assai pericolose. Io ammetto che di fronte ad una iniziativa, ad un atto di insubordinazione – come è stato detto – come quello del Manifesto il partito dovesse porsi il problema del pericolo del frazionismo. Però, compagni, nel documento che si propone non c’è solo questo. C’è anche una condanna pesante e totale che, per essere eccessiva, finisce col diventare, a me sembra, palesemente ingiusta; il pericolo consiste nel fatto che la lotta politica, alla quale si vuole chiamare il partito partendo da quella base, non abbia l’apertura necessario e non conduca a quegli esiti positivi che il partito si augura, ma possa trasformarsi, qua e là, in una vera e propria caccia alle streghe. Voglio confermare che se è vero, come abbiamo detto chiaramente, che il Manifesto è un atto di insubordinazione, nessuno di noi però pensa di proporre l’insubordinazione come metodo, e che io non penso che una libera discussione, un dissenso libero e franco, una elaborazione autonoma e libera, si possono esercitare solo fuori dal partito. Al contrario, io credo che essi si possano e si debbano esercitare all’interno del partito. Credo anzi di più, che questa sia oggi una esigenza vitale per il partito e che è compito di tutti noi studiare i modi, le forme e i tempi in cui tutto ciò possa attuarsi; se questo si farà, altri compagni lo hanno detto, io lo ripeto e lo confermo, verranno parallelamente meno le ragioni di vita del Manifesto e potrà aversi la sua estinzione, ovvero la sua radicale trasformazione. Io e gli altri compagni del Manifesto siamo non solo disponibili, ma anche pronti per questo studio.

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