Né beatificazione, né oblio. Pinuccio Sciola è sempre presente

16 Giugno 2016
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Ottavio Olita

Prima la beatificazione, anche da parte degli scettici, degli avversari, di chi per anni si era limitato a storcere la bocca. Poi l’oblio. Sembra ineluttabile questo percorso ‘post mortem’ per intellettuali, artisti, pensatori. Quali contromisure devono adottare quanti in quell’artista, in quell’intellettuale, in quel pensatore hanno creduto per evitare che la procedura si ripeta uguale a se stessa?

L’unica strada praticabile è uscire dall’emozione del momento per provare a storicizzare e riflettere sul ruolo di trasformazione della società, dell’arte, della pratica politica, di altre attività umane, svolto dalla figura di riferimento. Il problema me lo sono posto il 13 giugno, pensando a Pinuccio Sciola. L’ho ricordato da vivo, non da celebrazione di trigesimo (cosa di cui avrebbe riso divertito) e per questo ho sentito l’urgenza di scriverne.

L’ho rivisto nella sua struttura fisica pre-malattia, imponente, entusiasta, trascinante. L’ho riascoltato parlare il suo sardo schietto, pulito, da ‘paese’, non da rielaborazione linguistica. L’ho ammirato, tra sorpresa e invidia, camminare scalzo nel suo giardino di pietra e farsi invadere il corpo dalle vibrazioni della terra, trasmesse dai suoi piedi rotondi. L’ho osservato con attenzione – perché mi servisse da lezione – ascoltare i compaesani e gli amici, mai distrattamente, mai con degnazione, sempre e comunque proponendo un proprio punto di vista.

Soprattutto ho ricordato. Studente universitario, formato nelle assemblee pre e post ’68, avevo interiorizzato l’idea che l’intellettuale dovesse svolgere una funzione di promozione sociale al di là dello sbocco naturale della cattedra o della ricerca. La teoria era affascinante, ma la pratica?

In Facoltà di Lettere e Magistero si cominciava a parlare di quanto accadeva a San Sperate, paese che quasi nessuno conosceva, e della grande mobilitazione popolare che un giovane artista locale – aveva soltanto sette anni più di me – era riuscito a creare utilizzando pennelli e calce.

Il paese costruito con mattoni di fango, spazzato via più volte, nei secoli, da alluvioni devastanti, si era radicalmente trasformato seguendo l’idea semplice e rivoluzionaria di quel ragazzo amato da tutti, nato contadino ed ora  reduce da viaggi in mezzo mondo dopo aver conquistato una borsa di studio per il suo sorprendente talento naturale nel modellare l’argilla, il legno, la pietra.

Era ritornato e stava restituendo alla sua comunità quel che aveva appreso nel mondo e che alla sua gente poteva servire. Non era forse quello un modello da studiare per capire come un intellettuale potesse rendere utili le proprie competenze, le proprie intuizioni?

Curioso e intimidito raggiunsi San Sperate e fui travolto. Da subito. Pinuccio mi fece conoscere i suoi amici, mi presentò a mezzo paese, mi ospitò, cucinò una ricca pastasciutta, mi offrì formaggio e salsiccia. E parlammo. Soprattutto della necessità che gli intellettuali uscissero dalle loro stanze e che ci fosse la possibilità di raccontare il nuovo che stava accadendo. La necessità di una diversa informazione. Nacque Sardigna un periodico costruito e stampato a San Sperate grazie a Gianfranco Pintore, reduce dall’esperienza all’Espresso e stregato anch’egli da San Sperate e da Pinuccio. Intorno a loro uno stuolo di giovani appassionati.

E con i giovani arrivarono artisti da tutto il mondo, proprio lì, a San Sperate, il paese che fino al 1967 era rimasto fuori dalla storia. Dopo gli artisti i tecnici. Affascinati dalla personalità di Pinuccio vollero anch’essi rendersi utili: agronomi, urbanisti, naturalisti. Pesche ed agrumi trovarono un modo diverso di produzione e cominciarono a diventare fonte di reddito, non solo di soddisfacimento del fabbisogno familiare. Non era forse l’attuazione di una vera, concreta Rivoluzione culturale? Tutto questo accadeva senza che esistessero i mezzi di comunicazione e di socializzazione attuali, che vengono utilizzati solo come mezzi espressivi individuali, come alimento delle solitudini.

Partendo da questa considerazione ho coltivato un’utopia: l’esempio di quarant’anni fa, in una piccolissima comunità, sotto la spinta di una mente geniale e aperta, dovrebbe indurci a costruire nuovi momenti di partecipazione collettiva a progetti politici, artistici, culturali. Solo così, forse, potremmo uscire dalle nostre solitudini, dalle nostre individualità, per lavorare ad un’idea di nuova socializzazione.

La lezione che Pinuccio Sciola impartì, senza alcun accademismo, quarant’anni fa, favorendo forme crescenti di interessi collettivi – che poi inesorabilmente si scontrarono con opposte idee di gestione del potere – potrebbe servire ancor oggi.

Il suono delle sue pietre, accarezzate, mai percosse, è stato il principio di un percorso che purtroppo egli ha dovuto concludere troppo presto. Ragioniamoci su. Chissà che non possa aiutarci a individuare una nuova strada da percorrere tutti insieme.

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