Neppure un albero
16 Febbraio 2010
Alice Sassu
Otto del mattino. Il bus ci porta verso una zona di campagna che sta tra la città di Betlemme e la città di Hebron: Jab’a si chiama. È una terra che si trova nella zona C, la zona che dal 1993 (dagli accordi di Oslo) occupa ben il 70% della terra cisgiordana, e che è completamente militarizzata dagli israeliani. La terra di Mohammed si trova a 100 metri dalla zona di controllo e pattugliamento militare israeliano, il suo terreno è accerchiato da filo spinato e da torrette militari. Ogni ingresso è stato bloccato e né lui né la sua famiglia può entrare per coltivare. Mohammed racconta: “sono del villaggio di Al Jab’a e questa terra è della mia famiglia da tantissimo tempo. Si può ritornare indietro fin dall’Impero ottomano. Nel ‘48 abbiamo perso molto terreno e nel 1967 quello rimasto è sotto il controllo israeliano. Da allora ho problemi anche a piantare un solo albero”.
Prima di giungere nella sua campagna, dei militari israeliani notano la nostra presenza e intimano di andare via, ma si prosegue comunque. Armati di picconi e di alberi di olivi, una quarantina di volontari internazionali danno nuova vita al suolo. Si lavora velocemente. La presenza degli internazionali permette di prendere del tempo, i militari, infatti, tardano ad arrivare e controllano la situazione da lontano con i binocoli. Un amico anziano di Mohammed racconta: “io ho degli alberi dall’altra parte della linea su cui passerà il muro, e non mi danno il permesso di entrare nelle mie terre, devo entrare a Gush Etzion per chiedere il permesso, ma è difficile ottenerlo. E quando l’ottengo al checkpoint mi perquisiscono per delle ore”.
Dopo circa due ore, i militari scavalcano il filo spinato ed entrano armati, dicono che il tempo è scaduto e bisogna andare via. Mohammed ci dice che i soldati sono violenti e ha paura di piantare gli alberi da solo, perché possono anche arrestarlo: “amo veramente la mia terra e la voglio vedere coltivata”. Di ritorno dai campi il trattore non riesce ad attraversare la collina che immette sulla strada principale, e ci vuole del tempo prima di sbloccare l’uscita con i picconi. Mentre mangiamo qualcosa sul ciglio della strada ci racconta che l’unico punto che permette di giungere alla terra viene sistematicamente bloccato dai militari. Poi è davvero ora di andare via. Il giorno dopo si decide di andare a supportare i contadini di Oush Grab proprio nella località che ci ospita, Beit Sahour. Oush Grab era un’ex base militare giordana che dopo il ‘67 diviene zona militare israeliana. La base fu evacuata nel 2006 e negli anni successivi venne costruito un parco per i giovani e i bambini di Beit Sahour. La zona però è molto vicina alla colonia israeliana più adiacente a Betlemme, Har Homa, che fu costruita sulla terre espropriate ai contadini di Beit Sahour. Secondo i coloni che abitano Har Homa, la zona di Oush Grap è di loro proprietà per diritto divino.
Si recano così là in visita ogni venerdì, e recentemente alcuni di loro hanno segnato il territorio con stelle di David ovunque sui muri e i giochi del parco. Appena sotto la collina, dove ha sede il parco e dove aveva sede la base, nella valle, ci sono le terre di contadini a cui viene impedito di entrare e coltivare. Uno di loro ci racconta: “due anni fa abbiamo iniziato a mettere a posto la terra, ma i coloni stanno provando a buttarci via e non ci permettono di entrare. Dicono che la terra è loro, la loro terra promessa, e i soldati proteggono i coloni. Quello che fanno i soldati è di spingerci lontano, loro permettono ai coloni di essere liberi nella nostra terra. Io ho un documento che attesta che questa è la mia terra, ed è la terra di mio nonno. Noi abbiamo questo foglio dall’impero turco”. Sono più di cinquanta gli internazionali che, insieme ai cittadini di Beit Sahour, piantano alberi di olivo, è un segno per dimostrare che quella terra è palestinese, che è loro per diritto terreno. Arrivano anche dei militari israeliani, ma la massiccia presenza di forze di resistenza, impedisce loro di intervenire, e così vanno via. I contadini altrimenti non potrebbero riuscire ad entrare nelle loro terre e lavorarle. Uno di loro ci racconta ancora: “quando i coloni vengono qua e usano violenza, i militari non fanno niente. Loro dicono di venire per ragioni di sicurezza, ma in verità sono qua per proteggere i coloni. Una volta un colono mi ha colpito con un bastone alla schiena. Io ho detto ad un sergente che potevo riconoscere il colono. Lui dice che non potevo sapere chi era, e di andare nell’ufficio di Gush Etzion e di scrivere un report. E io gli dico: se io colpisco qualcuno dei coloni, voi mi arrestate sul momento. E lui risponde: lo vedi che sei intelligente! Questa è la risposta del grande sergente della polizia”. Sono arrivati anche gli anziani dell’ospizio di Beit Sahour per supportare i contadini e tutti piantano alberi. È forte la solidarietà tra palestinesi, ma anche quella degli internazionali, così come racconta Jawad Musleh dell’Atg (http://www.patg.org/): “noi piantiamo in questo posto per dire che siamo i padroni di questa terra, e che vogliamo utilizzarla. La presenza degli internazionali è importante perché solitamente quando i palestinesi sono soli non hanno il permesso di venire in questa terra, è molto pericoloso, perché essendo area C è zona militare. La presenza degli internazionali, oltreché permettere di coltivare, dà anche un forte senso di solidarietà ai palestinesi”.
La giornata finisce, la terra è tanta, molti sono gli alberi di olivo piantati, e si attende un nuovo giorno per resistere, sempre per la propria terra e la propria libertà.
16 Febbraio 2010 alle 17:05
Piantare un albero per resistere pacificamente ad un’occupazione militare illegale e vergognosa. I contadini palestinesi, umiliati e maltrattati, giornalmente trovano la forza per far valere i propri diritti. Hanno tanto da insegnarci – dignità e resistenza.