Non chiamatela missione di pace

1 Ottobre 2009

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Manuela Scroccu

Doveva essere una grande cerimonia, quella organizzata per  il 21 settembre dal Comando della Brigata Sassari per celebrare la prima volta dei fanti sardi in Afghanistan, piena di bandiere e di divise, di genitori e di fidanzate in ansia per i propri cari in partenza, con gli immancabili generali e i sottosegretari di turno, pronti a raccontare la favola della missione di pace e dei soldati-costruttori di scuole. Niente di nuovo sotto il sole della retorica che ha scaldato questi otto anni di guerra. Invece non c’è stata nessuna parata, il 21 settembre. I seicento militari sardi del 151° reggimento di Cagliari, con i loro colleghi del 152° di Sassari e con i genieri del Reggimento guastatori di Macomer, sono partiti per Kabul in silenzio, senza nessun festeggiamento. La grande celebrazione è stata annullata dopo che si è diffusa la notizia della morte dei sei soldati italiani del 186/mo Reggimento della Brigata Folgore, in seguito a un attentato kamikaze che ha colpito un convoglio della Nato sulla strada che porta dal centro cittadino all’aeroporto della capitale, Kabul, attentato nel quale hanno perso la vita anche 15 civili afghani e sono state ferite almeno altre sessanta persone, tra cui donne e bambini. Persone di cui non sapremo mai il nome, trasformate, affinché l’orrore della guerra possa essere meglio digerito dall’opinione pubblica, nel mero dato statistico degli effetti collaterali politicamente accettabili. Tra i militari italiani uccisi c’era un giovane ragazzo sardo di Solarussa, il caporal maggiore Matteo Mureddu. E ‘stato ricordato dal governatore della Sardegna come un giovane “figlio di pastore, figura che personifica, al di là, i grandi e perenni valori della tradizione, della famiglia e del lavoro della nostra comunità”. Molto più semplicemente, senza bisogno di scomodare i valori e la tradizione della Sardegna, Matteo Mureddu, figlio di una famiglia modesta, ha probabilmente dovuto scegliere la carriera militare più per la necessità di assicurarsi un posto di lavoro sicuro che per “ardore militaresco”. Così come, forse, i suoi colleghi che hanno perso la vita insieme a lui, e gli altri ragazzi che sono partiti in questi giorni con la Brigata Sassari per l’Afghanistan, figli di quel meridione dove, come ha ricordato Saviano in suo bell’articolo sul quotidiano Repubblica, fare il soldato è un’alternativa molto più dignitosa che “che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile”. E’ passata più di una settimana dall’attentato di Kabul in cui hanno perso la vita i sei soldati italiani. e la retorica dell’ “onore agli eroi” ha sepolto ogni tentativo di riflessione sul ruolo dell’Italia in Afghanistan e sulla responsabilità di una classe politica rimasta ferma ad otto anni fa, alla dottrina Bush, con i nostri “ragazzi” impegnati a distribuire  democrazia così come i soldati americani del dopoguerra distribuivano chewing gum. Si è detto che il momento del lutto impone un doveroso silenzio che non lascia spazio alle domande. Invece è proprio in questi momenti di dolore che diventa necessario ottenere delle risposte. Chi ha ancora il coraggio di chiamare la partecipazione italiana in Afghanistan una missione di pace? Non la signora Greca, la madre del giovane caporale sardo ucciso, che ha urlato a gran voce il suo disgusto per questa ipocrisia. Non la chiamavano missione di pace i sei militari uccisi e, tantomeno, la chiamano missione di pace i militari della Brigata Sassari partiti qualche giorno fa. Loro sanno bene che in Afghanistan c’è la guerra, un governo fantoccio che controlla a malapena la capitale, un territorio vastissimo controllato dai talebani e una popolazione civile fiaccata dall’occupazione, da rastrellamenti, dalle bombe e dalle stragi di civili. L’opinione pubblica italiana l’ha già dimenticato. Il 28 settembre sono morti  30 civili, tra i quali donne e bambini, in un attentato contro un autobus nella provincia meridionale del Kandahar. L’autobus è saltato in aria su una mina artigianale nel distretto di Maywand. Sulla stessa strada, che collega Helmand a Kandahar, un’esplosione analoga lunedì ha ucciso tre persone. Vanno a fare compagnia ai 1.500 civili uccisi in attentati nel solo 2009. Ma l’Afghanistan è lontano e la notizia è degna di un piccolo trafiletto di agenzia. Siamo in guerra da otto anni, anche se la chiamano “peacekeeping”, ma non è poi così importante. Fino alla prossima bara con il tricolore, fino al prossimo funerale di stato.

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