Non siamo disperati!
16 Novembre 2015Nicole Argenziana
In un Sabato di Ottobre, nella piccola e fumosa sala del centro informativo nei pressi di Betlemme, si è tenuto un incontro con M.S e S.F.* M. e S. sono due ragazze della terza Intifada: attiviste da sempre e profonde conoscitrici dei recenti movimenti di protesta palestinesi.
Parlando di quanto accade nei Territori Occupati, a Gerusalemme e in Israele sottolineano che non è un Intifada di disperati. I giornalisti sbagliano a definire i ragazzi, protagonisti di quella chiamata dai media mainstream ‘’Intifada dei coltelli’, dei ‘’lupi solitari’’ che non hanno nulla da perdere. Questo è un errore perché i ragazzi e le loro famiglie hanno tanto da perdere: la casa, la ‘’libertà’’ e per gli abitanti di Gerusalemme Est persino lo status di residente permanente. I combattenti, perfettamente consapevoli di quello a cui vanno incontro, superano la paura delle conseguenze al fine di evitare il consolidamento di Israele (dovuto all’inerzia della maggior parte del popolo palestinese) tramite forti azioni di lotta.
Parole come combattenti e lotta suscitano diverse questioni durante l’incontro e anche su questo punto le giovani sono chiare nel ribadire che i palestinesi non hanno il privilegio di scegliere dei target che piacciono agli occidentali. I target sono in larga parte i coloni, ma le due ragazze mettono l’accento su un fatto ancora più importante: noi che siamo sotto occupazione possiamo avere il privilegio di scegliere dei target “politicamente corretti’’? È possibile fare queste distinzioni? E quando il civile israeliano spara (è il caso della giovane uccisa da un colono alla porta dei leoni di Gerusalemme) può essere considerato un civile o è un target?
E se il palestinese sale su un autobus pieno di militari dove ci sono anche dei civili possiamo considerarlo un target? Si, perché semplicemente il palestinese non ha il privilegio di scegliere la propria vittima solo per far piacere agli internazionali, perché in uno stato occupante tutti sono carcerieri, i militari e i civili che acconsentono e ne beneficiano quotidianamente, tutti coloro che voltano la faccia, i coloni che fanno il lavoro sporco e i soldati che li aiutano. Non ci sono civili in Israele, ci sono solo occupanti. E gli occupanti e la potente macchina mediatica che li supporta, anche all’estero, possono contare sull’etichetta del palestinese, o meglio arabo ‘’terrorista’’, e si mettono al riparo nel ruolo costante della vittima che piace tanto al pubblico.
Loro possono sceglierlo e definirlo il target. È ovvio, proseguono le ragazze, consapevoli di questi meccanismi perversi prodotti dalla comunicazione politica di massa e della loro posizione di ‘’inferiorità’’, che anche se inutile nell’immediato questa lotta potrà portare a qualcosa di nuovo; di diverso nel futuro. Coloro che affermano che la rivolta è sterile sbagliano. Il perpetuarsi delle azioni individuali e le proteste organizzate senza il controllo di nessuno si accumulano e diventano un costo per Israele. Nella sola Gerusalemme Israele è stato costretto ad allocare milioni e milioni di shekels. L’occupazione deve diventare insostenibile per l’occupante.
Questi giovani sanno che solo questo potrà smuovere Israele dai suoi propositi. È vero, i ragazzi non hanno protezione, non hanno il supporto fisico delle fazioni canoniche della lotta (FPLP, Fatah, HAMAS), ma, come insiste S., questo non li ferma e se la popolazione non vuole o non può scendere in piazza al loro fianco, può fare altro: riempire i funerali e mostrare che il popolo è con loro, smettere di cooperare, di fare affari con Israele, condividere i filmati, essere anche solo informati su quello che accade. E soprattutto non dimenticare che la lotta è anche per loro.
M.S e S.F.* nomi inventati.
Foto di Francesca Corona