Notti padane. Devoti a San Michele
16 Luglio 2014Valeria Piasentà
La Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo per l’imprenditore Francesco Gurgone, mandante dell’omicidio di Ettore Marcoli, giovane imprenditore ucciso il 20 gennaio 2010 nella sua cava nel novarese. Marcoli era erede di una famiglia impegnata nelle costruzioni stradali, e recentemente nei cantieri della Tav. Gurgone intendeva appropriarsi degli interessi di Marcoli, compresa la cava adiacente la linea Torino-Milano: una posizione strategica per il seppellimento abusivo di rifiuti tossici. Secondo il Procuratore Saluzzo, che ha condotto le indagini, il movente del delitto è quindi legato alle attività di Marcoli, e l’omicidio è stato perpetrato con modalità di stampo paramafioso: la tecnica di Gurgone«era passare dal torto alla ragione con la violenza. Aveva steso la sua rete sul territorio, acquisendo mezzi e quant’altro e agiva con metodi ‘paramafiosi’… Un’occupazione di spazi di potere, con un sistema di intimidazioni e attentati. O si passava da loro o certe cose non si facevano. Questo non si può ridurre a un contrasto di lavoro. C’è un retroterra di un certo tipo». Probabilmente, il retroterra di cui parla il Procuratore di Novara è conducibile alla infiltrazione della malavita organizzata negli affari locali e negli appalti pubblici, specie relativi alle grandi opere, e nel nord-ovest i cantieri più ambiti sono quelli della Tav. E alla corruzione della classe dirigente, quando supporta le imprese infiltrate dalla malavita. E’ di pochi giorni la notizia di una truffa, per un appalto da quasi 28 milioni, ai danni di Ferrovie dello Stato e della sua controllata Rfi, che hanno appaltato lo smaltimento di rifiuti – contenenti anche amianto – provenienti dalle stazioni Porta Susa e Stura per la costruzione del nuovo passante ferroviario di Torino. L’enorme mole di materiale, si parla di centomila tonnellate, stava per essere interrato senza bonifica in alcune discariche del novarese e vercellese, in una abusiva di Vigevano e a Volpiano, dove è stata rilevata fin dai tempi della inchiesta Minotauro la presenza di una ‘ndrina, facente capo alla famiglia calabrese dei Greco. Procura di Novara e Dda di Torino hanno svelato i traffici illeciti di 24 indagati – imprenditori, titolari di discariche, procacciatori d’affari, trasportatori e tecnici di laboratorio – scoprendo una vasta rete di collusioni fra imprese e ‘colletti bianchi’. Contemporaneamente, con l’operazione San Michele (il santo venerato dalla ‘ndrangheta ma anche il nome del bar di Volpiano sede della ‘ndrina locale) i Carabinieri coordinati dall’Antimafia di Torino stanno indagando gli affari illeciti fioriti intorno ai cantieri della Val di Susa. Hanno arrestato 20 persone e disposto il sequestro di società e beni – fra i quali una cava in Val di Susa, uno yacht, centinaia di unità immobiliari – per un valore di 15 milioni. Fra arrestati e indagati risultano degli insospettabili: un sottufficiale dei carabinieri, un investigatore privato, un vigile urbano. Così l’inchiesta è stata presentata in conferenza stampa: «dimostra la propensione della criminalità organizzata ad agire in “franchising”, replicando anche al nord modelli criminali, come occupazione del territorio, intimidazioni, minacce, tipici delle zone di origine». Queste affermazioni fanno sperare che il Piemonte si allinei alle altre regioni del nord nella lotta contro la criminalità organizzata perché, qui come altrove, le infiltrazioni della ‘ndrangheta come delle altre mafie nella realtà sociale è massiccia e invasiva. Risale a decine di anni fa con l’acquisto di attività commerciali (negozi, ristoranti e bar, anche di gran prestigio) e non solo con le prevalenti imprese nei campi dell’edilizia e del movimento terra. La ‘ndrangheta quando non riesce a infiltrarsi nella società civile attraverso la corruzione di ‘insospettabili’, con la società civile entra in guerra. E le vittime che il Piemonte ha pagato a questa guerra pretendono che finalmente si attivi un impegno continuativo, sistematico e comparativo nelle indagini. Abbiamo già scritto dell’omicidio di Marcoli (peraltro mai ufficialmente addebitato alle mafie), ma lo scorso anno è caduto anche il trentesimo anniversario dalla morte del Procuratore capo di Torino Bruno Caccia, unico caso di magistrato ucciso dalle mafie nel nord Italia, dopo che in un primo momento si erano indagate le Brigate Rosse. E dopo cinque processi, ancora oggi non sono stati svelati i misteri che gravano intorno all’uccisione del magistrato. La cascina sequestrata all’omicida ‘ndranghetista Belfiore, accordato allora alla preminente mafia catanese, oggi è gestita da Libera e da altre associazioni che nel trentesimo dalla scomparsa hanno pubblicato Il giudice dimenticato di N. Tranfaglia e T. de Palma, Edizioni Gruppo Abele. La cascina è dedicata al giudice insieme all’annuale Festival Armonia, perché «L’arte si mette a servizio dell’impegno contro le mafie, con l’obiettivo di educarci alla difesa della bellezza, del bene comune e dell’etica, valori fondamentali per essere cittadini consapevoli e attivi nel contrasto di tutte le forme di illegalità», come recita l’invito alla rassegna di quest’anno. Se l’arte rende i cittadini consapevoli, allora perché le forze dell’ordine, i rappresentanti dello Stato e della giustizia qui in Piemonte si accaniscono con processi ai No Tav piuttosto che imputare chi, intorno alla Tav, cerca affari milionari condotti fuori dalle universali regole del vivere civile (non uccidere, non rubare, ecc.)? e incrimina un rappresentante di primo piano della cultura italiana per una intervista, praticamente per un reato d’opinione? Lo scrittore Erri De Luca è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Torino con l’accusa di istigazione a delinquere. Lui non si è presentato alla prima udienza del processo, e ha replicato: «Quello che sta succedendo a Torino lo considero un abuso (e noi con lui). Sono pronto a discutere dovunque, a confrontarmi con chiunque ma non nel ruolo di imputato. Se quello che ho detto è un reato, beh io lo ribadisco ma non lo posso ribattere davanti a un tribunale. Non lo posso neanche trattare. L’opinione non è trattabile, è un diritto intrattabile».
L’Arcangelo Michele è anche il patrono della Polizia di Stato. In virtù dei suoi attributi di combattente che uccide draghi e serpi con la lunga lancia, simboleggia la perenne lotta del bene contro il male, con vittoria del bene. Allora non ci resta altro che dichiararci, anche noi come i ‘ndranghetisti, devoti al santo guerriero – e lo scegliamo nella splendida rappresentazione di Guido Reni – nella speranza che infine il bene (la verità e la giustizia) si imponga sul male (la malavita organizzata, con il suo disprezzo anche della vita umana), grazie a quella giustizia terrena che qui, in Piemonte, dovrebbe occuparsi più di malavitosi che di dissenzienti politici.