O la Borsa o la vita

1 Dicembre 2011

Marcello Madau

All’interno della fantasmagorica Borsa del Turismo Archeologico svoltasi a Paestum dal 17 alc 20 ottobre scorsi, oltre le luci ed i suoni. In una delle sale più importanti e capienti, la “Saturno”, si sono svolti Stati Generali dell’archeologia italiana molto particolari.
Il Ministero per i Beni e delle Attività Culturali, con l’attento direttore Malnati e interventi delle Soprintendenze Archeologiche e Direzioni Regionali, operatori dei Musei Civici, sindacati e imprenditori e, soprattutto, gli archeologi con le loro associazioni professionali.
Straordinario il contrasto fra gli operatori che costruiscono a Paestum azioni economiche ed un patrimonio che le riceve e si sta sgretolando: questo è un vero debito pubblico; la separatezza fra una festa generale, condita da balli folkloristici, vendita di mozzarelle, ed esposizioni regionali (non lontano, quella della Regione Autonoma della Sardegna, tutta istituzionale e senza incertezze, quasi da pubblicità etilica macho: ma la grave divisione del gruppo delle statue di Monti Prama si stava preparando) e la devastante crisi del sistema nazionale della tutela, accelerata dall’attacco al sistema pubblico dei beni culturali e paesaggistici prodotto dal trio Berlusconi-Tremonti-Gelmini.
Gli atteggiamenti e le frasi di questi esponenti e lo sprezzo dimostrato per il patrimonio culturale italiano ricordano molto da vicino l’invettiva fascista contro il culturame.
Il sistema italiano della tutela, figlio di uno straordinario e a suo modo eroico Novecento, è in crisi inarrestabile.
Le ragioni sono profonde, stanno soprattutto nell’insolubile divario fra le forze disponibili – almeno istituzionalmente – e i beni archeologici. Fra i chilometri di territorio – o, se vogliamo, il numero di monumenti e oggetti – e il numero dei funzionari delle Soprintendenze.
Torneremo su questo appuntamento, le sue risultanze e le sue denunce, perché i punti sollevati (il lavoro, soprattutto, assieme alla tutela, alla ricerca ed alla valorizzazione possibile) meritano riflessioni più adeguate e puntuali.
Gli interventi provenienti da tutti i territori e da tutti i settori hanno fatto cogliere una situazione di degrado del paese che è davvero drammatica, e che si intreccia con la vasta dimensione di un precariato molto speciale, altamente professionalizzato, spesso sfruttato e sottoposto a condizioni lavorative profondamente vessatorie e talora drammatiche.
Ricordiamo a questo proposito la denuncia sulle ‘colline d’amianto’ nei cantieri archeologici campani dell’Alta Velocità operata, in una emozionante esposizione, da Lidia Vignola nella tavola rotonda Archeologhe che (r)esistono organizzata dall’omonimo gruppo di donne dell’Associazione Nazionale Archeologi.
La sensazione è che ci si trovi alle soglie di un cambiamento epocale, nel quale i soggetti che veramente lavorano nella produzione reale di saperi archeologici (Università, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, reti civiche archeologiche, archeologi professionisti) dovranno in qualche modo migliorare i loro rapporti, spesso separati, e rispondere adeguatamente alla sfida dei ‘beni comuni’.
Dove la professione dell’archeologo (assieme ad altre nobili professioni cognitive nel campo dei beni culturali: storici dell’arte, demo antropologi, archivisti, bibliotecari) va una voilta per tutte riconosciuta, iniziando dall’inserimento nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Dove il nostro paese dovrà finalmente ratificare, a quasi trent’anni dalla firma, la Convenzione europea di La Valletta.
Se esistono ancora sospetti fra i vari attori prima indicati (legittimi, per la verità, da parte di chi è stato sfruttato, un po’ di meno da parte di chi lo sfruttamento lo ha sinora esercitato, mascherato sotto le forme del volontariato o delle prospettive di una carriera futura al prezzo di una costante sottomissione presente), cresce la consapevolezza che il nostro patrimonio archeologico necessiti di forme nuove di tutela e complessiva cura.
La fine dell’archeologia ‘di Stato’ non deve però condurre in direzione di un’archeologia ‘del privato’, magari mascherata sotto forme ‘miste’. Il vero passaggio, l’unica risposta possibile ed efficace alle necessità di conservare e valorizzare l’enorme ricchezza dei territori italiani, è quella che conduce dall’archeologia di Stato all’archeologia delle comunità. Nella quale i soggetti attivi si moltiplichino entro indirizzi legislativi univoci che garantiscano alle comunità, e a quella, più vasta e multiforme, nazionale, che il territorio ed i suoi ‘beni’ siano davvero comuni e non possano essere privatizzati.
Se i settori della tutela, della ricerca e le generazioni di professionisti che hanno per loro natura a cuore il bene archeologico come bene comune, stringeranno un’alleanza virtuosa a favore delle comunità, non dovremo più notare l’insostenibile divaricazione fra la festa borsistica e un patrimonio allo sbaraglio, nè essere costretti a percepire con stupore misto ad un’insuperabile amarezza la magnifica serie dei templi tardo-arcaici e classici di Paestum, ed il bellissimo museo.

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