Obama e il rischio del ciclone Sarah
16 Settembre 2008
Gianluca Scroccu
Chiuse le Convention di Denver e e St.Paul si è entrati nel vivo della campagna per le presidenziali americane del 4 novembre. Se si dovesse votare sulla scorta di quanto visto nelle due convention per Obama dovrebbe essere una passeggiata. Dopo aver battuto, seppur di poco, Hillary Clinton (a Denver ha professato impegno e dedizione per il ticket Obama-Biden, ma bisognerà vedere come lei e il marito si spenderanno in queste settimane e soprattutto come risponderanno i 17 milioni di democratici che hanno scelto alle primarie la senatrice di New York), il giovane senatore dell’Illinois che pare incarnare quei valori di cambiamento necessari dopo gli otto anni di disastri di Bush sembrava destinato a far un sol boccone di un vecchio Mc Cain. Ma mai ritenere sconfitti sin dall’inizio i repubblicani e i loro abilissimi strateghi alla Karl Rove, maestri nel ribaltare la scena e nello smuovere la pancia dell’elettorato soprattutto del Sud e dell’Ovest del paese. Se Obama con la scelta di Biden ha optato per una valutazione istituzionale che dovrebbe corazzarlo da ogni accusa di inesperienza, perdendo però sul piano della linea di cambiamento e del rinnovamento, ecco che dal cilindro repubblicano a fianco di Mc Cain (che sotto molto aspetti è un candidato conservatore atipico e potenzialmente poco mobilitante) è spuntata improvvisamente la semisconosciuta Sarah Palin, governatrice dell’Alaska. Giovane e inesperta ma con una figura, abilmente costruita sul piano mediatico, che rischia di sfondare e di riscaldare quegli elettori repubblicani delusi da Bush. Obama, con la candidatura della Palin, si è visto disinnescare una delle sue armi migliori, ovvero il suo presentarsi come il paladino del rinnovamento possibile. La candidata vicepresidente repubblicana (la prima donna nella storia del partito) è anch’essa fuori dall’establishment: è donna, è giovane e in più sembra portatrice di quei valori conservatori che hanno ancora molta presa nell’elettorato americano. Sa usare le armi ed è socia convinta della National Rifle Association, sa guidare motoslitte, è una ex miss e sembra un’esemplare hockey mom, come le chiamano in Alaska. Certo, non sa nulla di politica estera, ma questo può essere un vantaggio per quell’elettorato che detesta i politici democratici che puzzano tanto di intellettualismo della East Coast. Alla rucola e parmigiano amate da Obama può contrapporre efficacemente i suoi hamburger di alce e le grigliate sui prati. Certo, c’è stato il gossip sulla giovane figlia incinta e su un suo presunto amante. Anche qui, però, gli strateghi repubblicani sono abilissimi: se infatti eventuali scandali sessuali o familiari possono essere utilizzati per far emergere le immagini dei democratici immorali e depravati come le stelle di Hollywood che impazziscono per Obama, nel caso della Palin queste accuse vengono derubricate come la solita acrimonia delle elite contro chi non proviene dalle loro file. C’è infatti una sostanziale fetta di elettorato americano decisamente conservatrice (ad esempio quello della destra cristiana protestante) che se appositamente vellicato con la cosiddetta redneck agenda non esita nel recarsi in massa a votare repubblicano. E Sarah “Barracuda” può mobilitare tutti quelli che si riconoscono in valori come la famiglia, le armi, il no all’aborto e all’interventismo statale, e che comunque non voterebbero mai democratico. Insomma, con la scelta della governatrice dell’Alaska Mc Cain sembra poter far passare la stessa ricetta vincente di Bush, costruita abilmente sull’esplicito invito a considerare l’America come il migliore dei mondi possibili, attraverso un curioso impasto di retorica utile a nascondere ben diversi interessi terreni, e una altrettanto esplicita credenza religioso-radicale, che ha portato a creare una vera Bible Belt (letteralmente “la cintura della bibbia”) che attraversa gli stati del Sud e dell’Ovest. Già, G. W. Bush. Anche qui, con grande abilità, gli strateghi repubblicani sembrano esser riusciti nel trasformare queste elezioni da un inevitabile referendum contro il presidente in carica, oramai impressionante collezionista di disastri (Afghsnistan, Iraq, Medio Oriente, situazione interna con crisi dei mutui) in un sostanziale pronunciamento contro il promesso cambiamento di Barack Obama. Uno stratagemma, questo, che la destra di tutto il mondo conosce bene (un fenomeno simile accadde in Italia nel 2006 in occasione del duello fra Prodi e Berlusconi). Sembra che Obama abbia percepito il rischio, e infatti in questi giorni sta aumentando gli attacchi non solo contro Mc Cain e la sua vice, ma anche contro Bush. La partita è ancora aperta ma la vera sfida sarà vinta da chi saprà mobilitare maggiormente i propri elettori. Nel 2004 Bush seppe richiamare alle urne dodici milioni di elettori in più rispetto alle elezioni del 2000; Kerry circa nove milioni in più rispetto ai voti di Gore, ma non bastò. La chiave della vittoria sarà quindi nella capacità di Obama di far partecipare alle elezioni tutto il suo potenziale elettorato, convincendo gli indecisi e i democratici più scettici, compresi quelli del Sud che non è detto abbiano ancora ben digerito la candidatura di un nero. Un compito difficile ma da qui a novembre può ancora succedere di tutto.