ONG palestinesi e diritti umani universali
1 Novembre 2021[Aldo Lotta]
I giorni scorsi il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha designato sei organizzazioni della società civile palestinese come “organizzazioni terroristiche”. Ciò sulla base della legge israeliana sul terrorismo adottata nel 2016. Le organizzazioni sono: Addameer, Al-Haq, the Bisan Research and Advocacy Center, Defense for Children-International – Palestine (DCI-P), Union of Agricultural Work Committees, Union of Palestinian Women’s Committees (UPWC).
Data la portata drammatica sul piano della politica e del diritto internazionali, credo che valga la pena interrogarsi sul significato di tale mossa e provare ad analizzare sia la reale identità sociale e politica delle organizzazioni prese di mira sia lo strumento legislativo utilizzato.
Addameer fornisce supporto legale ai prigionieri politici palestinesi, esponendo le violazioni dei diritti umani commesse contro di loro da Israele quale Potenza occupante.
Al-Haq è impegnata nella protezione lo stato di diritto e i diritti umani, documentando le violazioni dei diritti umani e cercando la responsabilità per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità di Israele.
Il Bisan Center difende i diritti socio-economici, politici e civili dei poveri e degli emarginati nella società palestinese.
DCI-P sostiene i diritti dei bambini palestinesi, attraverso la fornitura di servizi legali ai più vulnerabili, così come il patrocinio nazionale e internazionale.
La UAWC mira allo sviluppo agricolo attraverso l’empowerment degli agricoltori palestinesi all’interno di un quadro sostenibile basato sulla comunità.
UPWC è un’organizzazione femminista volta a dare alle donne palestinesi la possibilità di costruire una società palestinese progressista libera da ogni forma di discriminazione.
Tutte queste organizzazioni, nel loro impegno per i diritti umani, hanno sempre strettamente collaborato, e collaborano, con le analoghe ONG israeliane (come B’Tselem) e operano in una fitta rete funzionale con le principali ONG internazionali a favore dei diritti (tra cui Human Rights Watch e Amnesty International).
Esse collaborano strettamente, inoltre, con gli organismi delle Nazioni Unite a tutela dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale.
Il “Terrorism bill”, la legge israeliana contro il terrorismo, è stata approvata dalla Knesset il 15 giugno del 2016, su proposta della ministra della giustizia di allora Ayelet Shaked, membro del partito della destra religiosa nazionalista “Casa Ebraica”. Tale legge assegna al Ministero della difesa e quindi alle forze militari e di polizia ampi poteri di repressione amministrativa e penale nei confronti di individui o organizzazioni palestinesi e israeliano-palestinesi. Ciò sulla base di sospetti di attività eversiva e terroristica la cui definizione risulta nel testo di legge molto vaga e dai contorni molto ampi (ad esempio, la legge non dà una definizione di cosa sia da considerarsi terroristico).
Così, di recente diversi palestinesi sono stati arrestati e condannati per aver postato sui social media degli inviti alla resistenza contro l’occupazione militare.
Ma è opportuno ricordare che da sempre in Israele, all’interno della pratica esplicita dell’apartheid, si applica un doppio binario giuridico nei confronti della popolazione, per cui gli israeliani sono giudicati dai tribunali civili mentre i palestinesi devono rispondere penalmente ai tribunali militari.
In conseguenza di tutto ciò diviene concreta e drammatica la minaccia di arresto nei confronti dei difensori dei diritti umani, con prospettive dai contorni agghiaccianti per la popolazione civile più fragile, in particolare donne e minori, privata di quegli sporadici e quindi essenziali strumenti di protezione contro le violenze dell’occupazione.
Il fatto che quanto riassunto succeda in uno Stato che ormai sempre di più fatica a dichiararsi “democratico” non può che accentuare il portato angoscioso per una comunità, la nostra, che dall’altra parte del mediterraneo, continua, imperturbabile, a tessere con Israele legami militari, finanziari e industriali.
L’ultima plateale azione di Benny Gantz si staglia infatti su un orizzonte segnato da un peggioramento progressivo degli indici di democrazia reale, applicata, nell’intero mondo occidentale. Sentirci oggi ancora in linea con la profonda insidiosa ambiguità, da sepolcro imbiancato, del “democratico” colonialismo di insediamento israeliano non può più essere moralmente sostenibile. In tale prospettiva, infatti, con questo ultimo provvedimento, l’asticella mondiale della sfida sulla centralità del diritto internazionale e dei principi costituzionali nella società civile viene spostata ancora più su. Tanto più che l’Italia, l’Europa, la società civile, si trovano, guarda caso, in procinto di seguire (e non solo da spettatori) un procedimento giudiziario di cruciale importanza: quello presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia, chiamata a giudicare Israele per crimini di guerra nei confronti dei palestinesi.
La sfida a cui siamo dunque esplicitamente chiamati dal nostro stretto alleato militare-commerciale è lanciata: fino a che punto siamo disposti a rinnegare i principi cardine della democrazia presenti nei nostri ordinamenti giuridici di base? O non è forse più vantaggioso gettare la maschera e seguire, anche noi impuniti come Israele, la politica di immunità ed eccezionalità nei confronti del diritto internazionale?
Di fronte a tale sfida la risposta più dolorosa per il Paese sarebbe il silenzio-assenso istituzionale e mediatico, segnale di sudditanza nei confronti di politiche geo-strategiche decise dall’alto, ma sopratutto di ripudio dei principi basilari della Costituzione.
Ecco perché è oggi assolutamente d’obbligo e improcrastinabile una risposta univoca, una presa di posizione chiara, inequivocabile, del nostro governo e dell’intera nostra società civile. Esattamente come avvenne con grande successo negli anni novanta nei confronti del regime di apartheid africano.
“Israele continua a demolire le case, ad assassinare dei civili disarmati e ad arrestare dei bambini. Un esempio è il recente assassinio a Gerusalemme di Iyad al Halak, un palestinese con autismo..un altro paziente psichiatrico, Mustafa Younis, era stato ucciso nell’ospedale dove era in cura..disarmato e messo a terra gli hanno sparato più volte di fronte a sua madre…Un giovane militante mi ha detto: ‘Ero pronto a firmare qualunque cosa..volevo solo far cessare la tortura senza fine e il dolore atroce. La privazione del sonno mi aveva fatto impazzire’..Un uomo anziano è venuto nel mio studio con idee suicidarie che aveva sviluppato dopo essere stato costretto a demolire, con le proprie mani, la casa che aveva costruito venti anni prima” da SUMUD – Resistere all’oppressione, di Samah Jabr, (psichiatra nei Territori Palestinesi Occupati)