Pannella, la politica e la notte
16 Maggio 2016Adriano Sofri
Ci sono giorni, e notti specialmente, in cui rimpiango la galera. Era la galera il posto in cui sentir gridare che Marco Pannella è morto.
Prima di Pannella, uomo da marciapiede, alla politica mancava la notte. La notte è affare di puttane e di ladri, di froci e di spacciatori, di tradimenti e di rivelazioni. Stanze d’ospedale illuminate da lucine di macchinari e lamenti inascoltati, celle di galere illividite da luci al neon e gridi disperati. La notte degli amori e dei dolori: la politica se ne teneva alla larga come un impiegato dal suo sportello, dopo aver timbrato il cartellino d’uscita. Anche ai migliori esemplari della politica professata, cravatta e faccia obbligatoria, non si doveva immaginare frequentazione della notte che non servisse a dormirci sopra. Marco Pannella rivendicava la notte, i letti, le cacce, le febbri, i sudori e gli umori, la paura. Fu grazie alla notte che Pier Paolo Pasolini riconobbe Pannella come una figura fraterna. Pasolini ci abitava dentro come un animale notturno, ma Pasolini era un poeta. Pannella era un politico. Pannella inventò il Palazzo, Pasolini ne fece il Processo. Pasolini scriveva, Pannella parlava; la sua scrittura non fu mai all’altezza della sua eloquenza e, trascritti, i suoi discorsi più belli rischiano la retorica. Pannella parlava piuttosto, perché la scrittura, quando non sia poetica, pretende di fissare qualcosa che la parola detta lascia scorrere liberamente. Una volta la sua scrittura gli rese merito, e fu in un’occasione improvvisata, la prefazione al libro di Andrea Valcarenghi “Underground. A pugno chiuso”, 1973. Pasolini salutò quella prefazione con enorme ammirazione: “…E’ finalmente il testo di un manifesto politico del radicalismo. E’ un avvenimento nella cultura italiana di questi anni…”. (Io vi venivo affettuosamente liquidato con “la linea Parri-Sofri”…). Un altro scritto però vorrei suggerire di rileggere, uno in memoria di Bettino Craxi sul Corriere, il più bello, politicamente e umanamente, che mi ricordi.
Pannella era un politico. Uno che voleva cambiare il mondo, ma senza rassegnarsi all’ipocrisia che immagina diurno il mondo, e perbene la politica. La politica era disincarnata, e dunque maschile. Ammesso che la politica avesse un corpo, la notte lo ingoiava e spegneva la luce. Marco Pannella non ha conosciuto l’imbarazzo che il cattolicesimo chiama rispetto umano, un sinonimo antico della correttezza politica. Non c’è stato essere umano, il più compromesso e compromettente, che abbia esitato ad abbracciare. A volte, grazie alla sua autorità, guardie e ladri si sono mescolati nello stesso ritratto, come quando ora a salutarlo nella sua mansarda sono andati insieme i detenuti e il ministro della giustizia. Mentre scrivo ho il televisore acceso sul rumore e le facce di fondo che commemorano Pannella, e tuttavia so sentire distintamente le voci delle galere. Nei cortili i carcerati vanno e vengono, parlando di Marco. Non verrà più, era uno dei nostri, dicono. Non è vero, naturalmente: era uno di tutti, di carcerati e carcerieri, e di gente perbene e anche potente, perché anche la gente perbene e potente prima o poi cade in disgrazia o incontra la malattia e la perdita. Uno di tutti, come una brava puttana, e dev’essere per questo che il papa Bergoglio gli si è affezionato, ricordandosi della confidenza che la sua religione ha coi malvissuti e con le pene, se non abbastanza coi piaceri, dei corpi. Sento dire che Pannella, precursore un po’ di tutto, lo sia stato anche dell’antipolitica: che sciocchezza. La politica non era mai stata presa più sul serio, fino ad annettersi i territori che per riguardo alla vita privata le erano stati preclusi: panni sporchi lavati in famiglia, aborti consumati dalle mammane, malattie nascoste per vergogna, morti invocate e vietate fino alla tortura, e amori, innumerevoli amori lasciati senza nome e senza luce. Quella ipocrita riservatezza era il contrario della discrezione, lo schermo della viilazione.
Marco Pannella sembrava e si proclamava invulnerabile. I medici, diceva, non sanno capacitarsi della mia tenuta: ho addestrato i miei malanni a diventare degli anticorpi. In realtà sentiva come il tempo e i digiuni e le fatiche cui si sottoponeva lo provassero. Già tanti anni fa, scherzando sul suo rifiuto ostinato di darla vinta alla decadenza fisica, gli dicevo che si ascoltava, nelle lunghe registrazioni notturne d’archivio della radio radicale, come un grande tenore avrebbe ascoltato i dischi della giovinezza una volta affievolita la voce. Lui non avrebbe mai abbandonato la scena. Gli altri, i suoi vicini, dovevano decidere come trattare i suoi smarrimenti: eludendoli, oppure fingendo che non esistessero, e rincarando anzi l’adulazione, altrettante reazioni comprensibili. I migliori, come Massimo Bordin nelle memorabili conversazioni domenicali, scegliendo di eliminare ogni indulgenza per i suoi inciampi: probabilmente, mi dicevo, perché l’indulgenza l’avrebbe ferito più che il corpo a corpo. Da ultimo, quando non fu più questione di amnesie o di capricci improvvisi o di risentimenti contro il filo delle parole che lo tradiva e affiorò una specie di deliquio, dell’esplosivo temperamento di Marco restò soprattutto una dolcezza e una offerta e richiesta di amore. Accettata e ricambiata, sicchè l’ultimo capitolo della sua lunga vita è stato pervaso da una grata benevolenza. Si fa l’elenco dei riconoscimenti mancati. Una volta scrissi che se avessero nominato davvero Marco Pannella senatore a vita (era stato appena eletto presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, solo grazie alla sua suggestione) ci sarei rimasto male come se avessero dato il Nobel per la letteratura a Jorge Luis Borges. Infatti. Gli avrebbe fatto piacere, a Marco, e ancora più gliene avrebbe fatto rispondere No, grazie, probabilmente. Ma il riconoscimento cui mirava, che valesse per la parte migliore della sua formidabile vanità, era quello che il suo lungo addio gli ha tributato. Al diavolo l’ipocrisia e il conformismo dei lodatori e anche la caricatura di anticonformismo in chi si faccia tentare a rovinare la festa denigrandolo, il fatto è che chiunque abbia capito Pannella sa che l’avrebbe avuto dalla propria parte nell’ora della propria caduta. Fra questo e gli epigoni dei partiti personalisti e rodomontati c’è un abisso umano.
Nemmeno nei litigi fra gli eredi c’è una ragione di scandalo, tutt’al più un po’ di malinconia. Due giovani che si preparano a una piena vita comune, Matteo Angioli e Laura Hart, hanno accompagnato i lunghi ultimi giorni di Marco con una tenerezza e una schiettezza meravigliose: come due che si preparano a essere orfani. Mirella Parachini, invidiabile compagna, gli è stata vicina come in tutta una vita. Gli altri sono tantissimi e hanno ciascuna e ciascuno il proprio pezzo del capitano della compagnia, e possono sentirsene paghi. Emma Bonino ha tenuto fede a un impegno personale a non rinnegare il suo legame con Pannella, anche quando non poteva più semplicemente continuarlo. E poi ci sono tutti gli altri, quelli che non sono stati radicali e che forse si sposano e vivono felici e contenti oppure, se non va, divorziano e vivono meno infelici e scontenti. Diventò presto un luogo comune l’idea che Marco Pannella “avesse fatto il suo tempo”. Lo si sopportava come un glorioso fastidioso sopravvissuto. Intanto gli emuli incalzavano, scambiando il baccano per la sostanza. Adesso che è morto davvero, dopo averci provato tante volte, è chiaro a tutti che Marco Pannella ha fatto il suo tempo e, larghissimamente, anche il nostro.
Da il Foglio