Parole di Grazia
1 Dicembre 2014Silvana Bartoli
“Molti hanno esagerato la mia semplicità e la mia modestia. Io non sono affatto modesta; anzi considero la modestia il riflesso di uno spirito che si ritiene inferiore perché realmente sente di esserlo. Io sono invece orgogliosa; non perché ho scritto dei romanzi che ottennero fortuna ma perché mi sento cosciente, forte, superiore a tutte le piccolezze e i pregiudizi della società. Se fossi nata uomo sarei stata un solitario; sarei vissuto in un eremo. Donna, devo adattarmi e piegarmi a vivere fra coloro che amandomi e proteggendomi, completano la mia esistenza”.
Amo molto Grazia Deledda, si è già capito credo, amo soprattutto l’attaccamento alla sua terra, il bisogno di raccontarla, di farla protagonista delle vicende che riguardano tutta l’umanità.
Sardofona, leggeva assiduamente per migliorare il suo italiano, che per lei era una seconda lingua come per la maggior parte degli scrittori del tempo non toscani. Ma il bilinguismo di Deledda si traduce quasi in una doppia identità che dà ancora più spessore ai suoi personaggi.
Durante un viaggio a Galtellì ho camminato accanto alle sorelle Pintor; dall’albergo di Nuoro ho guardato con gli occhi di Grazia il monte Orthobene, il “suo” monte, che domina la “sua” Barbagia, quella che inseguiva a cavallo per conoscere sempre meglio tancas, mutos, gosos, battorinas, verbos e tutte le fiabe, leggende, preghiere, canti, formule magiche, imprecazioni, che il “suo” popolo aveva elaborato nel corso dei secoli.
Il suo passaggio “destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna, e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna; e i nani e le janas, piccole fate che durante il giorno stanno nelle loro case di roccia a tessere stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirea, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù, fra le distese di euforbia malefica, si nascondeva qualche drago o il leggendario serpente cananéa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude. Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli”.
Le ragazze per bene, si sa, non vanno in giro la sera; lei, incurante della riprovazione generale, stava fuori di casa fino a tardi per “osservare il tramonto del sole e come la luna illumina il monte”: quello era il suo lavoro. “Quando io sto sull’Orthobene e seduta su una roccia guardo il tramonto meraviglioso, mi pare di essere una cosa stessa con la roccia e che l’anima mia sia grande e luminosa come il cielo chiuso dalle montagne della Barbagia fatale”.
Andava “negli ovili, nelle case più povere e più oscure, tra il fumo e la miseria”, diceva bugie, si fingeva malata “per sapere le medicine popolari”.
Non trascurava i riti delle ragazze in attesa di marito: cuccu bellu ‘e frade, cantos annos bi cheret a mi cojubare?
Nella sua ricerca, la figlia di possidentes del Goceano frequentava sennores e brathàllos e, quando finalmente tornava a casa, la ritrovava “semplice ma comoda … stretta, quadrata e grezza come una torre; fin da bambina avevo stabilito la mia particolare residenza all’ultimo piano, in una specie di soffitta riparata dal solo tetto sostenuto da grosse travi e da uno spesso graticolato di canne”, vi si arrivava salendo ventinove gradini di ardesia. Nella casa fortezza “tutto era grande solido; nelle masserizie della cucina, le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale …”.
L’attaccamento alla casa, alle radici, si manifestò anche con la nuova abitazione romana che le ricordava “i tempi primordiali, i paterni nuraghes, quando l’uomo amava la sua casa fino alla morte e dopo la morte, e vi si seppelliva per diventare una cosa stessa con le sue pietre”. Anche lontana dalla Sardegna, dove non sarebbe mai più tornata, il paese del vento non la lasciava mai, anzi le insegnava ogni giorno a guardare il mondo e gli umani con la saggezza antica assorbita da bambina. La motivazione del Nobel non potrebbe dirlo meglio: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.”
Scrittrice già famosa e contesa dagli editori, si commuoveva ogni volta che sentiva un canto sardo e lo raccontava lei stessa ricordando la giovinezza: “Ho vissuto al contatto del popolo e dei paesaggi più belli e selvaggi nei quali si è immedesimata l’anima mia. Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne; ho guardato per giorni, mesi e anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo; ho mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce, per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente; ho visto l’alba, il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne; ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo, e così si è formata la mia arte, come una canzone, un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.
Ripensavo alla forza e alla grazia della scrittura di Deledda mentre leggevo, con molto interesse, l’articolo di Francesco Casula “In lingua sarda si può raccontare e insegnare”, al termine del quale mi è rimasta una domanda che gli rivolgo: come mai Deledda non ha usato la lingua sarda per i suoi racconti e romanzi?