Paura della libertà
1 Settembre 2014Silvana Bartoli
Prendo a prestito il titolo del bellissimo saggio di Carlo Levi che vede nella paura, ancor più che nell’ignoranza, l’origine della disponibilità ad accettare i totalitarismi, politici e religiosi: l’uomo forte dà sicurezza. A chi? A chi ha paura di pensare, scegliere, assumersi la totale responsabilità di gestire la propria vita.
Il femminismo non è odio per gli uomini ma rifiuto della funzionalità: per troppo tempo le donne sono state collettivamente riassunte in un catalogo di nomi, in un repertorio di exempla dominato dalla funzionalità dei ruoli: figlia di, moglie di, madre di…
Eppure ci risiamo! Rieccole quelle che “amo cucinare per il mio uomo e pulire la casa”, le figlie che non sanno farsene della libertà conquistata (e a che prezzo!) dalle madri.
Ad ogni generazione compare l’insofferenza delle figlie contro le madri, e ogni generazione riesce a cancellare le conquiste precedenti. È un prodotto del patriarcato che molte non riescono a superare, la rivalità tra donne si è imparata per secoli in famiglia: prima come figlie, poi come madri, prima contro le madri, poi contro le figlie. Forse è vero che le femministe non sono riuscite a narrarsi e non hanno saputo spiegare che il femminismo non vuole mortificare i corpi, vuole liberarli, o forse è proprio qui il problema: le anti-femminismo non voglio assolutamente corpi liberati, vogliono essere proprietà di un uomo. In fondo all’immaginario di molte resta la voglia di fiaba: solo il principe può fare di Cenerentola una principessa, e non c’è come un principe per dare grande sicurezza, anche se il numero di donne massacrate in famiglia dovrebbe ricordare la storia della topolina che, tra i tanti pretendenti, alla fine sceglie il gatto “perché è più forte degli altri”.
Ci pensi chi, ascoltando le giovani contro il femminismo, parla di fallimento della generazione precedente; il problema, enorme, è che ci sono ancora molte, troppe, donne che trovano sicurezza solo nell’approvazione di uno sguardo maschile; soltanto questo infatti può spiegare il sopravvivere delle mutilazioni genitali, dei seni schiacciati con sassi roventi o cinture di pneumatici, del burqa, non soltanto orientale, per rendersi gradite a colui che viene guardato come onnipotente.
Questo può spiegare le giovani donne convinte che la vera dignità femminile sia nel mettersi al servizio di un uomo, e quindi pronte a credere che ogni donna abbia “una vocazione naturale, nonché una meravigliosa attitudine, per l’economia domestica”.
Chiariamo subito che se ci sono aspiranti “regine della casa”, convinte di realizzarsi nel pulire e mettere in ordine dove LUI passa, sono liberissime di farlo, ma quelle che non vogliono devono essere altrettanto libere di rifiutarlo.
Una delle conquiste del femminismo è proprio la libertà di scelta che ci ha svincolate da ruoli unicamente funzionali, prodotti da secoli di predicazione sulla naturalità di quelle funzioni o addirittura rispondenti alla volontà divina.
Il punto è che le conquiste femminili sono sempre precarie perché molte hanno interiorizzato a tal punto il bisogno di dipendere da un uomo da diventare le più feroci nemiche di quelle che non sentono affatto il bisogno di tale dipendenza. Gli stereotipi attribuiti al femminismo qui non c’entrano nulla, la molla che spinge a darsi un padrone è, come sempre, il bisogno di sicurezza. Secoli di predicazione fondata su “non sei, non puoi, non devi” hanno convinto molte donne di essere delle minorate a vita, bisognose di protezione e tutela; qualche decennio di pubblicità ha convinto le più fragili che la felicità sta nel dipendere da un uomo. Potenza delle immagini! C’è chi l’ha capito migliaia di anni fa, le religioni infatti sanno benissimo che tanti uomini e tante donne hanno bisogno di un padrone, le più fragili si accontentano di un padroncino da servire quotidianamente; una scelta di sudditanza ancillare disposta ad accettare i pregiudizi sul femminile pur di sentirsi inserite in un gregge obbediente che dà sicurezza. Non è certo nuova la constatazione che gli esseri umani sono disposti a barattare un po’di felicità per un po’ di sicurezza. O forse la condizione umana è tale per cui soltanto la sicurezza consente di pensare alla felicità.
La felicità sta nel non avere alcuna libertà, dice l’Inquisitore di Dostojewski e la pubblicità ci spiega ogni giorno che la nostra felicità sta soltanto nella dipendenza da…
La pubblicità vende una felicità che, guarda caso, coincide con stereotipi sessisti: la donna può essere felice solo se cucina o pulisce per il marito che nel frattempo lavora al computer, o è appena tornato dal lavoro, o si rilassa con i bimbi, o è pronto per andare al lavoro; la donna è felice e sorridente quando si preoccupa del latte, delle sottilette, del brodo, nel quale si specchia (chi è la regina della casa? Tu, dice il brodo), quando porta la birra agli uomini che guardano la partita; la donna che nutre, cura e pulisce, è garanzia di felicità, evidentemente anche per le donne che vi si identificano, compreso il modo di vestire che impone di essere non solo serve ma sempre bocconcini appetibili. È ovvio che, per la pubblicità, la dignità femminile non fa vendere.
Sicché, se ci sono donne che si riconoscono nel “non sei, non devi, non puoi”, sai solo fare il sugo e lavare i calzini, o che trovano comodo e furbo farsi mantenere, se ci sono fanciulle desiderose di realizzarsi tra letto e cucina, sono liberissime di farlo; ma quelle che non vogliono devono essere altrettanto libere di rifiutarlo, e solo il femminismo ha prodotto questa libertà di scelta.
Alle giovani aspiranti “regine della casa” l’unica cosa che si può dire è: non sputate nel piatto in cui mangiate; se volete servire il marito fate pure ma non dimenticate che, se voi potete farlo per scelta, in molti altri posti del mondo le donne DEVONO essere schiave del marito, portare il velo, non guidare, non studiare; DEVONO sposare vecchiacci bavosi, essere stuprate, mutilate dei genitali, appiattite del seno.
DEVONO: perché donne.
E tutto questo alle femministe d’antan fa ribollire il sangue, così come le statistiche secondo cui le pensioni femminili sono sempre più basse di quelle maschili, esattamente come gli stipendi… ecc.
Il femminismo non dice che “tutti gli uomini sono predatori e tutte le donne vittime” ma denuncia religioni e leggi costruite a misura maschile. Come si può accettare ancora una tale ingiusta disparità?
Per lo stesso motivo che spinge molte (e molti) a cercarsi un padrone: la paura; e in fondo, come diceva quello che la sapeva lunga sull’argomento, “il coraggio, uno (una) non se lo può dare”.