Pci e Praga, incertezza e viltà
19 Agosto 2018
La fine della primavera. Pubblichiamo una serie di contributi sul drammatico Agosto 1968, l’invasione sovietica di Praga. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Rossana Rossanda ha scritto questo pezzo il 21 agosto 1998 su il manifesto, nell’inserto «Praga 68-98». (red)
[Rossana Rossanda]
Non fu una pagina gloriosa per il Pci quella della Cecoslovacchia. Il «nuovo corso» era l’estremo tentativo di uscita dalla rigidità del sistema condotto da un partito comunista ancora forte, sostenuto da una intellighentia impegnata e da una fiducia popolare esente dalle spinte anticomuniste che si erano infiammate nel 1956 nella rivolta ungherese. Il Pci lo capì e lo sostenne fino all’invasione: allora parlò di «tragico errore», ma non decise quello «stacco» che avrebbe compiuto a freddo molto più tardi. Né appoggiò l’opposizione a Gustav Husak; anzi gli esiti di Praga parvero suggerirgli somma prudenza sui fatti polacchi, dove nello stesso inverno del 1968 gli studenti avevano occupato le università – fu il solo grande movimento studentesco all’Est – e furono duramente repressi, cacciati i docenti più illustri, i Kolakovs- ki, i Baczko, i Brus, e arrestati i giovani di Kuron, Modzelevski, Michnik con i primi gruppi di difesa operaia.
Non capì, l’anno seguente, la prima rivolta dei cantieri che fece cadere Gomulka e avrebbe dato il segno di lotte operaie per tutto un decennio, non destinate in partenza a finire in braccio alla Chiesa. Ancora nel 1978, quando il manifesto convocò una discussione di due giorni degli esponenti di sinistra del dissenso, il Pci interdisse ai suoi quadri di partecipare al convegno, affidando un unico intervento, prudente, allo storico Rosario Villari. Lo strappo di Berlinguer sarebbe intervenuto dopo gli anni settanta, in presenza di dirigenze ormai irrecuperabili e opposizioni di segno politico opposto.
A distanza i più lucidi sull’evoluzione dell’Est sembrano essere stati Togliatti e Longo, i soli due vecchi dell’Internazionale che ebbero nel Pci un ruolo determinante. Quattro anni prima, nel 1964, Togliatti aveva steso a Yalta, in attesa di incontrare Krusciov, un memoriale nel quale indicava l’aggravarsi dello stato di quelle società. Il documento – interessante anche per alcune correzioni visibili portate alla prima stesura – pareva scritto per argomentare l’opposizione del Pci alla conferenza internazionale di tutti i partiti comunisti che il Pcus voleva indire per condannare la Cina, e alla quale già Togliatti aveva esposto il parere negativo dei comunisti italiani.
Il sugo del memoriale era: piaccia o non piaccia la linea cinese, ogni partito sceglie la sua «via al socialismo», non si può che discuterne l’uno con l’altro in modo ravvicinato e senza scomunica, e non sarebbe più urgente che vedeste i guasti nel campo dell’Est in Europa?
Togliatti morì d’improvviso prima di incontrare Krusciov e Luigi Longo decise di pubblicare il memoriale. In Francia uscì su Le Monde. Il Pcus e il Pcf ne furono grandemente irritati, mentre chi all’Est scalpitava e ne ebbe conoscenza, vide con speranza quel passo degli italiani. Nel febbraio del 1965 ero a Praga (negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti bombardavano Hanoi e la Tass preferiva non darne notizia) e si percepiva l’insofferenza verso la leadership di Antonin Novotny. A gennaio del 1968 egli veniva sostituito senza furia né sangue, e la segreteria passava a un oscuro dirigente slovacco, Aleksander Dubcek.
Cominciava il nuovo corso, e il Pci lo intese. Ma lo intesero anche Breznev, Gomulka e Ulbricht e ne temettero il dilagare. Solo due mesi dopo, a marzo, convocavano a Dresda un vertice del Patto di Varsavia, apparentemente su un diverso odg, che in realtà chiedeva a Dubcek di rendere conto della linea Pcc. Dubcek si difese e pensò di averli persuasi. Luigi Longo non si ingannava e ad aprile andò a Praga per una pubblica testimonianza di amicizia, gesto insolito, un avviso al Pcus. Il quale il 4 maggio riconvocava a Mosca Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Romania (che non venne), per affrontare esplicitamente la questione cecoslovacca.
Si allarmò anche il Pcf, allora diretto da Waldeck Rochet, che corse a Mosca con Pajetta per sconsigliare qualsiasi intervento. Furono appena ascoltati. Il 14-15 luglio Urss, Polonia, Bulgaria, Rdt, Ungheria stendevano una requisitoria contro il Pcc in forma di lettera che rendevano pubblica: consegnate il paese alla controrivoluzione. E con il pretesto di normali manovre nel campo, truppe russe si mossero in Cecoslovacchia. Quindici giorni dopo, il 29 luglio, i dirigenti cecoslovacchi erano riconvocati a un incontro su un treno, alla frontiera, a Cierna Nad Tisu: era un ultimatum.
Ma a Cierna Dubcek non cedette. Si sentiva, o credeva, appoggiato sul serio da diversi partiti comunisti, la Romania era reticente, l’Ungheria non entusiasta. Luigi Longo scrisse una lettera personale alla segreteria del Pcus, anch’essa insolita, non c’era tempo di convocare la direzione ma faceva sapere che, quale che fosse il parere degli altri, lui, Luigi Longo avrebbe condannato pubblicamente ogni atto militare. Forse gli archivi del Pci testimoniano di chi non era d’accordo con lui: ovviamente i filosovietici, di altri non so. Ma Amendola ebbe a dirmi, con l’abituale rudezza, che l’Urss era per il Pci quel che gli Stati Uniti erano per la Democrazia Cristiana, una carta importante nei rapporti di forza.
Sta di fatto che l’Urss sembrò fermarsi. Il 3 agosto i cinque tornarono a riunirsi con Dubcek a Bratislava rinunciando alle minacce. Il giorno dopo le truppe russe lasciavano la Cecoslovacchia. Fu su una Praga tranquilla e stupefatta, che non sparò un colpo di fucile, che la notte tra il 20 e il 21 agosto piombarono i tanks sovietici. Il gruppo dirigente del nuovo corso veniva arrestato e portato a Mosca con il presidente Svoboda, Dubcek in manette. Del Pci, che aveva accolto Bratislava con sollievo, quella notte in segreteria a Roma era presente soltanto Alfredo Reichlin, che dovette tenere botta. Luigi Longo in vacanza di salute nell’Urss, lo seppe il mattino dopo da un comunicato che gli fu portato assieme alla colazione e al Pcus non lo perdonò mai.
E che avrebbero detto Vietnam e Cuba, che parevano allora un terzo polo? La notte del 21 attendemmo con Karol fino alle tre la notizia dall’ambasciata cubana, che sperava in una condanna dell’intervento. La mattina dopo Reichlin mi chiamava alle sette: «Il tuo Fidel ha approvato con la formula: avanti non solo a Praga, ma anche ad Hanoi».
Più di un compagno nient’affatto burocrate – ricordo Luigi Nono – si sentì rappresentato da quella che considerava una posizione di sinistra. Il nuovo corso aveva, sì, i consigli operai ma anche ideologi come Ota Sikh e Radovan Richta, aveva sì ottime intenzioni ma accennava a interloquire con Willy Brandt, e chissà come sarebbe andata a finire.
La maggioranza della base del Pci, come il Psiup di Vecchietti, Valori, Foa, pensò che il socialismo era quello del campo sovietico, brutto ma meglio che niente, e che qualsiasi contestazione al Pcus avrebbe indebolito le forze al movimento operaio e comunista in Occidente. Lo stesso quel tanto del movimento studentesco – era l’estate nel 1968 – che se ne accorse.
Nel Pci il modo con il quale era stato liquidato il 1956 e il silenzio che seguì al passo di Togliatti nel 1964, sempre nella speranza che l’Urss evolvesse in un più di democrazia senza troppi scossoni, giocò anche contro quella parte della dirigenza che di dubbi sulla natura del sistema sovietico non ne aveva più da un pezzo.
A fine agosto il Comitato centrale condannava il «tragico errore». Non un tragico errore, intervenne Luigi Pintor, ma una coerente conseguenza della politica sovietica. Era la prima uscita secca di quello che sarebbe diventato il gruppo del manifesto. Non ricordo se si votasse, non mi pare, certo Pintor fu bacchettato. Fuori dalla porta Pajetta chiedeva uno per uno a coloro che entravano: ma Dubcek e Svoboda non hanno fatto bene ad affermare il compromesso? Che cosa pensi?
Un anno dopo, nel settembre 1969, il manifesto mensile usciva con l’editoriale «Praga è sola» e cominciava il processo che avrebbe portato alla nostra radiazione a novembre.
Berlinguer aveva cercato di evitarla, ma dopo quell’articolo ci si disse – il Pcus gli aveva chiesto di «onorare la cambiale». Non so quale; al XII Congresso, pochi mesi prima, mentre parlavo dell’invasione di Praga, la delegazione sovietica, diretta da Boris Ponomariov, s’era alzata ed uscita. Ma tre del manifesto, Pintor, Natoli ed io, fummo riammessi nel Comitato centrale: forse Berlinguer garantì a qualcuno che non avremmo fatto danni. Non approvò che uscisse la rivista ma non minacciò misure disciplinari; non nascose però il timore che qualsiasi presa di distanza da Mosca potesse dare spazio a una forte frazione filosovietica, come negli anni settanta fu quella di Lister in Spagna. Ma davanti a «Praga è sola» i Secchia, i Cossutta, e anche gli Amendola e i Terracini, trovarono che non eravamo tollerabili.
Tanto più che il nostro tentativo di ripercorrere i sentieri del marxismo eretico – da Marx a Rosa Luxemburg a Korsch al primo Lukacs, che il 1968 non frequentò – si univa, spenta la prima ondata degli studenti, alla spinta che veniva dall’autunno caldo. Libertari e di sinistra, il Pci ci liquidò. Ma il danno maggiore lo faceva a se stesso. Non solo i vecchi ma gli allora quarantenni accettarono di partecipare alla conferenza internazionale alla quale avevano a lungo riluttato, Longo stava ormai male – e, ripetuta la critica al «tragico errore», nelle crescenti crisi dell’Est non misero più bocca.
Le opposizioni di quei paesi non ebbero più nel Pci un riferimento. E il Pci stesso arrivava nel 1989 senza avere svincolato la propria storia da quella dell’Urss. Quando cadde il muro di Berlino, mancata ogni elaborazione del lutto, buttò a mare anche l’Ottobre e infilava una strada che neppure può dirsi socialdemocratica, lasciando aperti tutti gli interrogativi a una rifondazione, che neanch’essa s’è mai decisa ad affrontarli.