Pensare al futuro del servizio sanitario nazionale

26 Maggio 2023

[Mario Fiumene]

Pensare al futuro del servizio sanitario nazionale e regionale significa rivedere cosa ha davvero funzionato, e cosa meno, nei primi 45 anni della sua esistenza.

Ovviamente significa decidere verso quali nuovi confini spingerne una sua necessaria ed inevitabile riorganizzazione, formale e sostanziale. C’è da chiedersi se può essere proponibile una riorganizzazione che veda finalmente interagire le varie figure professionali (medici dipendenti, medici convenzionati e infermieri) per la migliore cura del paziente.

Si continua a proporre variazioni normative: le ultime sono il Decreto 70 che riguarda l’assistenza ospedaliera e il Decreto 77 della Medicina Territoriale, entrambi andrebbero rivisti e integrati tra loro, al fine di stabilire una volta per tutte qual è il flusso del paziente e permettere ai DEA di primo e secondo livello di poter gestire non solo l’entrata dei pazienti, ma soprattutto la loro dimissione a domicilio o nel territorio.

Si parla da decenni di restituire centralità del paziente (che forse non ha mai avuto),ovvero organizzare in senso trasversale, abbattendo definitivamente tutti i silos esistenti, il percorso di cura che segue le sue esigenze, e non obbligarlo a adeguarsi alla nostra offerta di servizi. Offerta resa, da decenni, rigida e complicata in accesso, ripensando agli esiti di salute che già oggi, a parità di risorse impiegate, avremmo potuto raggiugere.

Se vogliamo rendere il paziente centrale, accettandolo con tutti i suoi diversi e complessi bisogni, dobbiamo essere in grado di fornirgli risposte differenziate, ovvero smettere di dare risposte uguali a bisogni diversi e quindi individuare cosa serve a quello specifico paziente ed essere in grado di fornire esattamente quello che serve a lui niente di più e niente di meno. Ospedali e territorio debbono evolvere nei loro modelli organizzativi e gestionali insieme e in un approccio integrato.

Abbiamo bisogno di ospedali a intensità di cura diffusi, aperti verso il territorio e integrati con esso. Personalmente vedo la casa come punto di cura, come il luogo in cui vengono ricevute/erogate cure sanitarie. Possiamo affermare che “il luogo di cura” negli ultimi 50 anni si è spostato in modo significativo dal capezzale dei malati agli ambulatori dei medici e agli ospedali. Negli ultimi decenni il luogo di cura, soprattutto negli ultimi anni grazie ai servizi di Cure Domiciliari (ADI/SAD) e alla telemedicina, almeno in parte ha fatto il percorso inverso. Ma ancora non basta.

Le necessità assistenziali non possono prescinderei da due componenti, entrambe partecipate dai professionisti dell’ospedale, una si svilupperà fuori dalle mura degli ospedali e l’altra al loro interno: l’assistenza acuta e le esigenze chirurgiche. Lo sviluppo della medicina fuori dagli ospedali è un  passaggio fondamentale dovrebbe essere la presa in carico dei pazienti da parte di nuove figure professionali, con competenze in diversi nuovi campi della medicina territoriale, anche se non necessariamente ultra specialistiche, possedendo capacità di leadership e di coordinamento degli interventi multidisciplinari e multi professionali, in stretto collegamento con il medico di medicina generale all’inizio e alla fine della degenza; di fatto un professionista clinico con competenze manageriali del percorso del paziente. Questa figura programma il piano di cura, attiva le consulenze ritenute necessarie, ed è il responsabile della terapia, del percorso di degenza e della dimissione, diventando il trait d’union con il MMG.

Ruoli simili in altre Nazioni sono assicurate dagli Infermieri (manager) di Famiglia/Comunità. Si dovrebbe fare una riflessione anche da noi su tali figure.

Riprendendo il discorso della riorganizzazione si dovrebbero progettare ospedali flessibili ed agili, sostenibili e centrati su pazienti e operatori. Guardare alla struttura ospedale per i prossimi decenni, non solo nella prospettiva della realizzazione di nuove strutture, ma di quella, assai più frequente, d’interventi di riqualificazione e riadattamento dell’esistente: ripensare a quanti problemi sono derivati dallo smantellamento di tanti piccoli ospedali, per poi inventare Ospedali di Comunità dalla dubbia efficacia.

Chiedersi quali sono i requisiti, in altre parole i bisogni, cui un ospedale deve rispondere. Prevedere che la gestione delle strutture sanitarie, che hanno oggi tecnologie avanzate disponibili, il cui costo di utilizzo è notevole veda il coinvolgimento, per una gestione ottimale, di tutti gli operatori del mondo della sanità, dalle direzioni generali ed amministrative, del personale medico ed infermieristico, ai responsabili della loro progettazione e della loro realizzazione.

L’ospedale e il territorio: l’approccio all’integrazione tra ospedale e territorio si basa necessariamente su metodi e modelli finalizzati ad aumentare la personalizzazione delle cure, la facilità di accedervi con tempestività, l’esperienza che pazienti e familiari ne traggono e l’efficienza di sistema per pazienti con problemi complessi e di lunga durata che coinvolgono diversi servizi, erogatori e modalità assistenziali.

La traduzione istituzionale e operativa delle logiche di integrazione dell’assistenza è nella progettazione e implementazione delle reti cliniche (ospedali-territori) e dei processi assistenziali (PDTA), strumenti necessari per perseguire gli obiettivi fondamentali del nostro SSN (Equità, Efficacia, Efficienza). Senza integrazione non c’è continuità assistenziale: l’integrazione fra le competenze e gli interventi sanitari e sociali non è più soltanto una auspicabile opzione ma una necessità per la qualità stessa degli interventi.

Uno dei punti critici della continuità assistenziale è costituito proprio dal momento della programmazione della dimissione, dei servizi da attivare in uscita dall’ospedale. Infatti, la risposta a fabbisogni non solo sanitari ma anche sociosanitari e assistenziali richiedono servizi dedicati e condivisi tra le unità operative, non più gestibili con soluzioni eterogenee e interne a ciascuna di esse.

In coerenza con quanto sopra, sono inderogabili dei criteri attuativi nazionali uniformi sull’organizzazione della medicina territoriale, di prossimità, di comunità e domiciliare, nonché sul ruolo dei MMG, PLS, guardia medica e altre forme di medicina convenzionata e loro forme associative interprofessionali e interdisciplinari. Assistiamo dovunque ad un depauperamento delle risorse professionali della sanità, del sociosanitario e del sociale.

L’OMS prevede da qui a 10 anni una carenza di circa 10 milioni di operatori sanitari nel mondo. Nonostante il PNRR abbia messo in cantiere l’aumento delle borse di studio in medicina generale e l’incremento dei contratti di formazione specialistica, l’inadeguatezza si esprime non solo nella insufficienza numerica dei professionisti ma anche nella assoluta inadeguatezza della programmazione rispetto alle competenze specifiche da sviluppare in termini di specialità disciplinari.

Questo provoca un fenomeno pericoloso di fuga dalle strutture sanitarie che non riescono a garantire gli standard di performance compresi nei LEA. Abbiamo formato e perso negli ultimi 10 anni circa 180.000 operatori sanitari a vantaggio di altri Paesi. È un lusso che non potevamo concederci. È necessario affrontare il tema delle risorse umane della sanità e trovare le dotazioni finanziarie adeguate al loro inserimento nei SSR, risolvendo criticità legate al precariato e a tutte le atre forme di contratti atipici esistenti in sanità e nel sociosanitario.

Per gestire tutto questo abbiamo bisogno di più medici, più infermieri, più operatori sociosanitari e sociali tornando ad investire sulla loro formazione in base a nuovi profili professionali orientati allo sviluppo delle nuove competenze tecniche e relazionali necessarie per dare gambe al rinnovamento e alla qualificazione del sistema sanitario pubblico.

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