Peppino Mereu: il poeta maledetto e socialista
16 Gennaio 2016Francesco Casula
Il 14 gennaio scorso ricorreva il 144° anniversario della nascita del poeta tonarese Peppino Mereu. Giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie. A 19 anni si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare.
Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi, diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabineris/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distintziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettaos, uguales.
Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, – proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista – Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/”mea culpa” sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende. Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo – che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione – Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra/s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu.
Il poeta nel Dicembre del 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così al suo paese. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta. Consumato dalla tisi, che candela de chera muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni.
La sua poesia più famosa è Nanneddu meu conosciuto in tutta la Sardegna grazie anche al fatto che è stato musicata e cantata da moltissimi gruppi musicali e cantanti sardi. Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell’Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli “Italiani” emargina e penalizza – dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico – la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia e al protezionismo, tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell’Isola.
Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un’Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas. Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato, malinconico e perfino tenero.
Leonardo Sole a proposito di Nanneddu meu scrive che Mereu “offre un bell’esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l’isola e continuano a spogliarla con l’aiuto dei printzipales sardi”. Mentre Francesco Masala sostiene che “Si comprendono bene l’importanza e l’affetto che ebbe Peppinu Mereu nella comunità di Tonara e la permanenza della sua poesia nella tradizione orale della società barbaricina: su cantadore malaittu, ripudiato dai ricchi parenti borghesi, viene assunto dalla comunità popolare tonarese, a coscienza critica dell’ingiustizia sociale e dell’egoismo di classe. Presso le fonti di Galusè, il poeta malato, pallido, vestito coi tristi panni della malinconia e dell’ironia, bizzarro, selvatico, non bello, non simpatico, già vecchio a venticinque anni, appoggiato all’inseparabile bastone, sembra un asfodelo roso dal male, in attesa di un improbabile riscatto di giustizia, di salute e di amore”.
Sempre a parere di Masala, “per capire la poesia e la figura di Peppinu Mereu, spirito inquieto e ribelle, non si tratta di frugare fra gli archivi, dove gli storici di professione trovano sos papiros, i documenti lasciati dai vincitori a futura memoria della loro bontà e della loro civiltà, ma si tratta di frugare dentro le viscere della nostra tradizione popolare, dentro la tradizione orale dei nostri pastori, dei nostri contadini, dove è rimasta la memoria collettiva dei nostri dolori, dei nostri terrori, dei nostri rancori, insomma della nostra di storia di vinti ma non convinti”.