Per Pinuccio Sciola
16 Maggio 2016Mario Faticoni
Estraggo dal mio recente Un delitto fatto bene, il ricordo di una delle numerose gesta di Pinuccio Sciola.
Eravamo a Venezia nell’ottobre 1976 per il tema “ambiente come sociale”e Sciola aveva preteso e ottenuto che l’inserimento dell’esperienza di Paese Museo in quella sezione non dovesse essere la semplice esposizione del materiale audiovisivo, dei murales e delle sculture. “A Venezia bisogna andarci fisicamente, spiegare, mostrare. E non solo con le opere ma con le persone che hanno fatto quelle opere e ci vivono accanto”, aveva detto con quel tono che conoscete.”Il decentramento va difeso. Se Venezia non viene in Sardegna, la Sardegna va a Venezia”.
E ci aveva trascinati tutti. La Biennale era stata quasi costretta a inserire ufficialmente le esperienze artistiche sarde nel programma, a fare un manifesto, a stilare un comunicato stampa: “La Sardegna porterà nei campi di Venezia una sintesi delle attività culturali che attualmente sono in fermento e che tendono sia al recupero di una cultura da sempre condizionata e oppressa, sia a rappresentare la sintesi di momenti culturali, sociali, politici della Sardegna d’oggi”.
Su quattro camion solcano il Tirreno sculture e prodotti artistici, allestimenti scenici, complessi corali, gruppi di teatro gestuale e dialettale, con in testa quelli di San Sperate, suonatori di launeddas, cantori. Un’ottantina di persone, tutti partiti alla disperata, fra cui Leonardo Sole, Mauro Deledda, Lorenzo Puxeddu, Gianfranco Pintore.
Il primo giorno tutto si era svolto in Campo Santa Margherita. Il rione popolare reagisce con ammirato stupore alla contaminazione sarda della piazza: paesaggio sardo rapinato e degradato, canne, cadaveri scolpiti nel legno, impiccati che penzolano dagli alberi, morti bianche, morti di miniera, morti di emigrazione, morti da militarizzazione, morti da inquinamenti; canti, poesie, azioni gestuali, la musica delle launeddas, rappresentazioni teatrali…
Fortissima emozione, successo…Ma qualcosa non va. Sciola alza la voce.“La cultura sarda carica di problemi qui rischia di restare come in un museo. Ci hanno messi in un ghetto, occorre uscirne, andiamo a piazza San Marco. Lì passano tutti, lì lo scontro vero con la nuova cultura sarà inevitabile”. Trasportare tutto in vaporetto, discussioni con i vigili: “non avete il permesso”. Ma la Biennale si muove e i cadaveri e le canne si posano nella piazza. Reazioni indescrivibili. Tutti si fermano. Stupore, ammirazione, pensieri angosciosi. Troppo crude quelle morti, quelle sofferenze. Troppo belle, troppo universali per essere solo sarde. “Venezia è marcia, nell’acqua c’è cromo e mercurio, sono anche cadaveri veneziani”, grida Sciola. “Bisogna essere rudi per rompere l’incantesimo, questo isolamento che chiamano decentramento – commenta Sole – non siamo più isolati, come inquinamento siamo alla pari. La lezione è tutta qui. In questa rottura, in questa smagliatura…”.Viene distribuito un ciclostilato.
“Siamo a Venezia come sardi. I cadaveri che vedete sono l’immagine della nostra realtà presente e della vostra realtà futura. Sono l’immagine della disgregazione economica, sociale, culturale, del popolo sardo, colpito a morte nell’indifferenza generale. Per l’italiano medio la Sardegna è l’isola del silenzio non perché siamo già morti, ma perché nessuno sente o vuol sentire. Il modo migliore per non far sentire è quello di mitizzare una realtà inquietante proiettandola fuori del tempo e dello spazio. A questo scopo serve egregiamente il folklore. I panni colorati del folklore nascondono la deportazione di settecentomila sardi, la distorsione dell’economia attraverso l’impianto di una monocultura petrolchimica che ha soffocato il sistema produttivo dell’isola; la trasformazione della Sardegna in un’immensa base militare Nato, duecentomila ettari sottratti ad agricoltura, pastorizia, pesca, turismo; il terrorismo culturale applicato sistematicamente nelle nostre scuole contro la lingua e la cultura sarda; le nostre Seveso sono il gruppo Sir-Rumianca, l’Anic-Montedison, la miniera di Funtana raminosa che ha inquinato il Flumendosa, la superporcilaia della Planargia, la base atomica de La Maddalena…”.
La sera, in Campo Santa Margherita, prima di Parliamo di miniera della mia vecchia Cooperativa Teatro di Sardegna, Lorenzo Puxeddu canta la sua poesia: “…Ischìdadi Sardigna! / Assutta sas lacrimas uddidas / de sos fizos tuos isuliadus / fattu ’e su mundu…”. Prima di ripartire si era andati a venti chilometri dalla città per un convegno nazionale sul decentramento culturale. La Sardegna avava chiesto spazio per un intervento, e Pinuccio aveva parlato. Poco. Ma non si era levata coppola.
La scomparsa di questo gladiatore culturale è una perdita commisurata al bisogno enorme che Italia e Sardegna hanno di fecondare il terreno lasciato incolto dalla delittuosa gestione culturale dell’intero Paese. Cantarne la scomparsa però non serve se non si tessono le lodi anche dei protagonisti meno noti di lui, se non si mette a fuoco, oltre alla sua arte, la sua preziosa natura di operatore culturale. Una figura presente ancorché poco visibile in Sardegna, terra attraversata e animata non solo allora da una foltissima schiera di artisti e intellettuali atipici, una rete con maggiore presa sulla massa giovanile di altre componenti politiche e sociali. Onorarli di una maggiore attenzione è il miglior elogio della missione culturale di Pinuccio Sciola.