I sardi devono sostenere la lotta dei pastori

1 Ottobre 2014
pastori
Claudia Zuncheddu

La questione dei pastori sardi deve superare i confini delle nostre campagne e ricucire le relazioni con le città. Il solco che si è creato tra le economie dei centri urbani e le attività agro-pastorali in Sardegna ha creato una condizione di isolamento che alimenta l’idea comune secondo cui l’attività agropastorale sia in declino e non essenziale nell’economia sarda. Tutto ciò è aggravato dall’imposizione di regole di un mercato globale che ci vede consumatori di prodotti alimentari per l’80% importati. La grande distribuzione, di fatto, soddisfa le esigenze dei cittadini dalle grandi città ai più piccoli centri dell’Isola, orientando i gusti e imponendo i prodotti di consumo su scala globale, a Cagliari come a Città del Capo, a Burcei come a New York.
La globalizzazione, nel suo omologarci anche con l’alimentazione, distrugge le nostre economie, le nostre tradizioni, arrivando persino a produrre danni al nostro patrimonio genetico, esponendoci sempre più a nuove malattie. In questi decenni il passaggio dal latte ovino sardo al latte di altra origine in età neonatale e pediatrica, tra i nostri bambini, ha determinato l’insorgenza di patologie auto-immunitarie, con forte interessamento prima di tutto a livello intestinale (vedi gli studi dell’Università di Sassari). L’evoluzione dei costumi e delle abitudini alimentari, che vede nei prodotti importati, la fonte primaria di approvvigionamento per i nostri mercati interni, ha stravolto culture ed economie locali. La “sostituibilità” dei prodotti alimentari sardi, quindi resi non più indispensabili, ha agevolato con la rottura delle relazioni di scambio tra i centri urbani e le aree rurali incoraggiando nuove forme di disgregazione economiche, culturali e sociali.
In questo contesto diventa importante l’acquisizione della consapevolezza, soprattutto nelle città, che il settore agropastorale, seppur fortemente in crisi, continua ad essere asse portante dell’economia sarda. Da ciò deriva la necessità di riallacciare i rapporti economici e culturali tra i centri urbani e le campagne.
Nella stretta relazione tra le attività prevalentemente commerciali e turistiche dei centri urbani e quelle della pastorizia, dell’agricoltura e dell’industria artigianale dei territori, va individuata una via importante per il superamento della crisi con la costruzione di nuove prospettive economiche per il nostro futuro. La valorizzazione dell’interdipendenza dei vari settori produttivi (agro-pastorizia, industria artigianale, commercio e turismo) sicuramente sarebbe elemento per compattare le nostre economie potenziando i mercati interni e di conseguenza promuovendo non solo nuova occupazione ma diversa qualità del turismo e nuove relazioni di scambio con tutto il Bacino del Mediterraneo e con l’Europa. Per noi sardi ciò implica necessariamente una riappropriazione del nostro Territorio, il recupero e la rinaturalizzazione delle aree inquinate, la riconversione in economie ecosostenibili ed ecocompatibili delle aree di servitù industriale e militare.
Queste politiche sarebbero una risposta immediata e forte alle rivendicazioni dei nostri pastori e agricoltori. In quest’ottica tutti siamo chiamati a un impegno di vigilanza perché sia posta fine alle politiche speculative che mortificano l’ambiente, uccidono le risorse e impoveriscono le collettività. Questa risposta identitaria e rivoluzionaria sicuramente è uno strumento vincente per opporci alla globalizzazione mondiale e sarebbe una via d’uscita per la nostra sopravvivenza in tempi in cui la crisi si acuisce sempre più.
Per tali ragioni la “questione delle nostre campagne” non è un problema esclusivo di una categoria ma riguarda tutto il sistema economico e culturale sardo. Il popolo sardo per sconfiggere la crisi e la sua disgregazione, deve intraprendere un cammino di ricostruzione delle relazioni tra le nostre città e le nostre campagne.

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