Pictura Manent
31 Luglio 2024[Gianni Loy e Banne Sio]
Pictura Manent è il titolo dello spettacolo, ideato e diretto da Daniel Dwerryhouse, che il gruppo teatrale “Cannasas” – che ancora una volta ha dimostrato una straordinaria professionalità e una eccellente capacità nel narrare l’attualità – ha messo in scena, ad Orgosolo, nell’ultimo scorcio del mese di maggio.
Senza neppure aver bisogno di un teatro vero e proprio, visto che quinte e fondali della storia che il regista intendeva rappresentare, sono impresse nei murales del paese barbaricino, e continuano ad essere aggiornate, in tempo reale, dagli artisti di tutto il mondo, che così esprime il dolore, l’ansia e le speranze di tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Un libro aperto che continua ad essere illustrato anche dall’artista che, per primo affidò ai muri del paese il desiderio di pace che portò alla rivolta, pacifica, di Pratobello.
In un passo delle Scritture si ricorda che la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare. Quando la popolazione di Orgosolo si mobilitò in massa per impedire che sulle terre da sempre destinate alla pastorizia venisse impiantata una base militare, si arrivò ad affermare che si trattava dell’iniziativa di un gruppuscolo di maoisti che sarebbe riuscita a convincere un gruppo di pastori, inizialmente favorevoli ai militari. Tutte le istituzioni, al principio, criticarono e condannarono la reazione di un intero paese che, sino a quel momento, era conosciuto nel mondo come patria del banditismo.
È così che Pratobello, è diventato pietra “angolare” nella storia, nobile, di una Sardegna orgogliosa e decisa a difendere, con tutte le sue forze, la propria gente e il proprio territorio.
E’ così che tutte le volte che si aggira lo spettro di uno sfregio ai danni dell’Isola, la prima cosa che viene alla mente è la rivolta di Pratobello.
Con un così prezioso scenario a disposizione lungo le strade del paese, il regista ha compreso che non avrebbe potuto trasportare tutta quella ricchezza all’interno di un teatro ed ha pensato bene di far muovere il pubblico lungo gli affreschi che illustrano le vie del paese, lasciando agli attori – intesi quali figure che si staccavano dalle illustrazioni delle pareti – il compito di spiegare il significato della storia.
A dirigere il traffico un “guardiano”, che dopo aver raccolto il pubblico nella piazza di via Nuoro esordisce proprio con le parole di uno dei primi slogan apparsi sui muri del paese nel maggio-giugno del 1969 e successivamente diventato un murale di Francesco del Casino: “Concimi non proiettili”.
Il guardiano intona i versi con cui Peppino Marotto descrive la rivolta di Pratobello – evento imprescindibile per ogni narrazione – quindi, dirigendosi al pubblico, ammonisce della similitudine tra gli eventi di Pratobello e l’attualità, di come oggi, come allora, si sia in presenza di un grave pericolo per Orgosolo e per la Sardegna tutta, quello di diventare una colonia non più dell’esercito italiano ma delle multinazionali del vento.
Si può anche sospettare, visti i tempi, che questa parte del monologo sia stata inserita all’ultimo momento, a dimostrazione di una narrazione che guarda al passato, ma che è sempre in divenire.
È il guardiano stesso che poi indirizza il pubblico verso le tappe/scene seguenti, inizialmente lungo la via principale del paese.
Presso la fontana di “Cuntzimu”, – seconda scena – il tenore Murales declama i versi di Peppino Mereu tratti dalla poesia “A Genesio Lamberti”:
E tue, senza pane,
istancu, famid’e nudu,
no alzas de disdign’una protesta!
Ses peus de su cane,
vile servis e mudu
linghes sa man’ingrata e faghes festa
a chie ti deridet,
cando, pedinde, a manu tesa t’idet!
Parole accorate, atto di accusa verso chi si piega alla prepotenza e s’inchina persino alla derisione e, allo stesso tempo, ancora un invito alla ribellione.
La terza scena, in via d’Azeglio, è collocata davanti ad uno dei murales di Francesco Del Casino, che rappresenta imponenti figure femminili. Qui, Tatana Devaddis elogia il lavoro delle donne: “Le mani delle donne mandano avanti il mondo”.
Nella scena successiva la Corale polifonica orgolese intona “Siyhamba” un canto popolare africano diventato simbolo di unità, speranza e comunità. Il titolo deriva dalla lingua zulù e significa: “Noi marciamo” o “Stiamo marciando nella luce di Dio” a seconda delle interpretazioni e delle traduzioni. Queste parole semplici ma potenti simboleggiano il percorso e il viaggio comune che le persone intraprendono insieme per superare le sfide e realizzare i propri sogni. Il suo fascino universale risiede nel suo messaggio di solidarietà, unione, pace e speranza.
Il pubblico viene indirizzato verso le scene successive, ed è curioso osservare, per chi sia in grado di darsene conto, che lo stesso regista, Daniel Dwerryhouse, mischiato in mezzo al pubblico, partecipa in prima persona ad indirizzare il pubblico nei luoghi – e nel rispetto del tempo – dove sono state allestite le scene.
Si arriva così al murale dedicato alla “Sibilla barbaricina”, nome attribuito da Raffaello Marchi a Tzia Elisabetta Lovicu. Qui è Damiana Pinna, nelle vesti di sa majarja di Orgosolo, a spiegare come la maga conoscesse l’uso delle erbe tradizionali per curare diverse malattie e rimettere a posto le ossa rotte, ma anche come fosse capace di leggere i turbamenti dell’animo umano. L’artista ricorda le capacità terapeutiche di tzia Elisabetta, che faceva largo uso della medicina tradizionale, ed allo stesso tempo ironizza sulla capacità della stessa, che sapeva presentarsi sotto le vesti di maga o di brussa (diavola) a seconda delle convenienze. La rievocazione della figura di tzia Elisabetta Lovicu serve anche a ricordarci che la magia, la libertà, è donna. Ne vien fuori un inno alla natura e alla terra in un mondo dove invece sembra prevalere la logica del profitto e del consumo che, unito allo sfruttamento sregolato delle risorse, ha rotto l’equilibrio ecosistemico e ci sta portando a un punto di non ritorno con un futuro costellato da eventi naturali estremi.
La tappa/scena successiva – di nuovo lungo la via principale del paese – ha come sfondo un murale di morte. Un murale che ricorda i tre operai morti sul lavoro a Ottana l’11 giugno del 1975. L’attrice, Patrizia Satta, rende omaggio a Minnia Buesca, sua dirimpettaia e stella polare che si affacciava su quel murale di morte. Il monologo è una forte denuncia per le intollerabili 1300 morti bianche che ancora oggi, ogni anno, colpiscono i lavoratori in Italia. Patrizia Satta, tra le lacrime, ammonisce che non si può morire mentre si lavora, e conclude intonando un “Atitu” scritto da Giuseppe Rubanu “Marzotto” per ricordare uno dei tre morti di quella strage, l’orgolese Anzelinu Floris.
Il guardiano, e il regista, indirizzano quindi il pubblico in una via laterale, verso la vecchia biblioteca, dove alcuni murales ricordano i sacrifici imposti dalla ricerca del lavoro. Il pubblico dovrà osservare la scena dal basso verso l’altro, perché il personaggio, interpretato da un’esilarante Maria Corda, è intento nella pulizia dei vetri delle finestre in un balcone del secondo piano. Mentre esegue il suo lavoro ricorda, nei dettagli, le vicende che hanno accompagnato l’emigrazione di un suo cugino in Lombardia, nelle quali un ruolo non secondario ha avuto la lambretta di suo padre. Quanto basta per far tornare alla mente, le sofferenze, le umiliazioni e l’isolamento sofferto dalla moltitudine di sardi emigrati. Il fresco umorismo consente di ingoiare la pillola, ma non fa venire meno la pena provocata dal ricordo.
Nella scena successiva, proprio davanti alla casa natale della beata Antonia Mesina, viene proposta la lettura di un’altra poesia di Peppino Mereu: “Su testamentu”. La interpreta, trasmettendo una forte emozione, Paola Lai, nella semioscurità della notte incombente, dinanzi a un pubblico attento che si chiede, stupito, perché mai quel testo, proprio lì, ad Orgosolo, sia stato letto in lingua italiana.
Mentre gli spettatori ancora cercano di darsi una spiegazione, il corteo raggiunge piazza de “Su Ponte”. La scena è costituita da una serie di murales dedicati a Pratobello; uno di questi riporta il testo, in lingua originale, di una canzone di Giuseppe Rubanu “”Marzotto”: “Pratobello”, indimenticabile icona di quel tempo e di quella lotta. Peppino Puligheddu, accompagnato all’organetto da Antonio Pili, esegue il brano di fronte a un pubblico in religioso silenzio.
Il corteo è ormai sul punto di raggiungere la piazza, ma viene trattenuto dal guardiano e dallo tesso regista ed invitato a rivolgere lo sguardo in direzione del museo del pane, dove campeggia un murale dedicato ad Alfredo Niceforo.
Da un piccolo palco sopraelevato, si affaccia Simonetta Biscu, nelle vesti del criminologo, autore di studi – si fa per dire, – che sulla base della conformazione del cranio – dolicocefalo, cioè a forma di botte, più piccolo di quello normale e quindi incapace di contenere sufficiente materia cerebrale – dimostrerebbero che i sardi – anche i sardi – sarebbero geneticamente predisposti a commettere delitti efferati. La performance dell’attrice è entusiasmante, coinvolge il pubblico e lo diverte.
Mentre ci si avvia verso l’ultima tappa, il corteo è investito dai chicchi di grano e di riso – segno di buon augurio – lanciati dalla porta di casa da Tzia Pepanna Sio e da tzia Tzitza Succu.
La scena dell’ultima tappa ha come fondale il murale dedicato a Fabrizio De André, che racchiude anche qualche verso della poesia “Preghiera in gennaio”. L’aria si fa melanconica: Giorgia Mura, accompagnata alla chitarra da Antoni Conzu, esegue la struggente canzone del musicista genovese. Vengono accompagnati dalla danzatrice Agnese Filindeu, che sul tavolato a lato, tenta – invano? – di liberarsi dalle trame che le impediscono di volare.
Sembrerebbe che al pubblico, dopo aver tributato l’ultimo applauso ad un cast capace di far vibrare le corde dei presenti, ed a tratti di suscitare un sorriso liberatorio, non resti altro che abbandonare quel teatro itinerante per incominciare a riflettere sulle suggestioni di una serata impegnativa.
Ma al pubblico che ha seguito quella processione da un estremo all’altro del paese, è riservato un epilogo: gli spettatori vengono invitati a fare ingresso nel piazzale “de s’Iscolàsticu” dove vengono raggiunti dalle attrici e dai tecnici della compagnia. Le attrici, per la prima volta insieme in questa serata, si dispongono a semicerchio di fronte al pubblico accomodato nei gradoni dell’anfiteatro comunale. C’è silenzio assoluto. Maria Corda intona sotto forma di “Atitos” una composizione di Mario Mereu, poeta orgolese, e fa da sottofondo ai versi – di amore assoluto per la Sardegna ma, forse, anch’essi ammonitori – di Joyce Lussu declamati dalle altre attrici:
(…) Non è non è questa la Sardegna.
Io cerco il tuo sentire diverso,
racchiuso nel tuo chiuso animo come una volpe ferita
cerco l’immagine della vita nella tua fatica difficile,
nei tuoi dirupi di granito
nelle tue distese d’ogliastri e di lentischio
su pei colli orgogliosi e impervi come montagne
cui non danno dolcezza nemmeno le prime nebbie dell’alba
o le ombre calde dei tuoi tramonti (…).
Un gran finale vibrante ed emozionante.
Successivamente si aprono le danze. Tutti insieme si danno la mano in un girotondo, unu ballu tundu finale, liberante. Svanisce ogni differenza tra gli attori e il pubblico, tra la realtà e la finzione. Siamo tutti coinvolti.
Forse è proprio in questo momento, al termine della rappresentazione, che si comprendono le parole iniziali del guardiano – forse inserite all’ultimo momento – che invitano a riflettere sulle similitudini tra le espropriazioni ad uso militare e quelle ad uso eolico, o dintorni.
Pratobello è ieri, è oggi, è domani. Potrebbe anche essere, così lascia intendere il teatro itinerante, e il titolo della rappresentazione conferma la suggestione, che la parola magica per comprendere, ma per davvero, la balentia sia proprio “Pratobello”.